Con la sua prima graphic novel, Si può fare, ha raccontato la nascita del sodalizio tra Mel Brooks e Gene Wilder, e di quel capolavoro che è Frankenstein Junior. Ora Isabella Di Leo ci riprova, e scava a fondo nella vita del celebre regista, tra luci accecanti e ombre assordanti. Ecco cosa ci ha raccontato durante Lucca Comics & Games 2023
Tra uno scroscio di pioggia e l’altro, corro al padiglione Napoleone per incontrare Isabella Di Leo, autrice di È bello essere il Re, una bio-graphic novel (se il termine non esiste, lo invento ora) che racconta Mel Brooks quando era ancora Melvin Kaminsky, sceneggiatore per il grande comico Sid Caesar. Il padiglione è come sempre troppo affollato, di trovare uno spazio proprio non se ne parla, ed è già un miracolo se riesco a raggiungere lo stand BeccoGiallo, chiaramente sgomitando un po’.
Mi accoglie una ragazza con lunghi capelli rossi, un grande sorriso caldo e gli occhi stanchi e felici di chi da questa fiera si sta facendo spremere, ma va bene così. Il trovarci così, un po’ scappate di casa, umidicce e con il trucco sfatto ci avvicina, e toglie un po’ di quell’imbarazzo che abbiamo tutti ogni volta: io, nel fare le domande; gli intervistati, nel rispondermi mentre scavo tra i loro pensieri. Usciamo a prendere un po’ d’aria, approfittando di un momento senza pioggia.
Isa, grazie per averci dedicato questo tempo, sappiamo quanto siano intensi i giorni di fiera.
Grazie a voi che volete concedermi un po’ del vostro tempo per intervistarmi!
È un piacere e anzi, inizio a bomba con la prima domanda: sei qui per presentare la tua nuova opera pubblicata da BeccoGiallo, È bello essere il Re. Da dove è partita l’idea?
Parte nello stesso momento in cui è partito il precedente libro, Si può fare, perchè mentre cercavo informazioni su Mel Brooks per dare un po’ di anima al personaggio, sono finita a comprare una sua biografia: Funny Man, di Patrick Mc Gilligan. Credo sia un po’ una Bibbia su quello ciò che è stato Mel Brooks, nelle sue luci e ombre. Mentre leggevo questa biografia, c’erano alcuni passaggi – in particolare quelli legati alla prima parte della sua vita, l’adolescenza, gli anni come soldato durante la seconda guerra mondiale, gli anni con Sid Caesar -, alcuni aneddoti che mi facevano pensare “Quanto bellissimo materiale! Potrebbe nascere un altro libro da tutto questo”. Solo che mi era appena stata accettata la sceneggiatura per Si può fare, che si svolge trent’anni più avanti; allora mi sono detta “ok, non esaltiamoci troppo: mettiamo in pausa quest’idea, finiamo Si può fare, e se la cosa andrà bene e piacerà magari ritorno a pensarci”. Così è stato: per fortuna, Si può fare è piaciuto molto – tanto che ieri ne è uscita la ristampa – ho proposto a BeccoGiallo un nuovo fumetto più legato a Mel Brooks e loro hanno detto sì. Anche se ci ho messo due anni a realizzarlo, in realtà è già da quattro che è nella mia testa.
Hai un film preferito, tra quelli di Brooks?
Sono molto razionale in questo; sono un po’ di parte, ma riesco a riconoscere dove ha lavorato meglio e dove no. Ho due tipi di preferenze: se devo dire dal punto di vista qualitativo, Frankenstein Junior non si batte, è un capolavoro. Ma dal punto di vista affettivo, il primo, The Producers, che in italiano abbiamo tradotto con una roba orribile, Per favore non toccate le vecchiette. Quello è il mio preferito perché è stato il primo sia per Mel Brooks che per Gene Wilder come attore protagonista, e quindi da ogni fotogramma si vede la voglia di entrambe di emergere, la grinta che ci mettono per passare da completi sconosciuti a essere qualcuno. È molto ispirato, come film, e quello era un Mel Brooks diverso da quello delle parodie. I primi due lavori non erano parodie ma veri e propri film.
Hai parlato di parodie, e del resto Brooks è notoriamente dissacrante, prende classici del cinema e li fa a pezzi. Cosa ne pensi di questa capacità di smontare tutto con una risata?
È stata una lezione di vita, perché mi ha insegnato a scherzare sulle tragedie. Brooks ha scherzato su Hitler, sull’Inquisizione, non si è mai fatto scrupoli. E siccome purtroppo ho dovuto affrontare anche una malattia abbastanza grave qualche anno fa, proprio perché ho avuto questo tipo di maestro sin da adolescente ho pensato “perché non posso ridere anch’io di queste cose? Trovare in qualche modo la vena comica?”. Ho preso tanto spunto nella mia vita da questo modo di dissacrare tutto. C’è una frase che Brooks dice, che mi è piaciuta tanto: non puoi battere i dittatori salendo sul pulpito insieme a loro, perderesti perché sono dei bravissimi oratori; però puoi abbatterli ridendo di loro, rendendoli ridicoli. E io questo discorso lo condivido appieno. La risata è l’unica arma che abbiamo.
Come mai È bello essere il re?
Si riferisce al passaggio di testimone tra il mentore di Brooks, Sid Caesar, che negli anni ’50 era definito “il re della comicità” e il regista stesso. Per gli amici, Caesar era “re” o “daddy”, ed è stato in qualche modo la figura paterna di Brooks, quello che gli ha insegnato il mestiere. Chiaramente, Mel era dissacrante già di suo, ma Sid gli ha insegnato come far confluire la sua rabbia nello sviluppare battute, e poi gli ha passato letteralmente la corona.
Questa tua capacità di ridere di tutto ti ha mai fatta sentire non capita?
Quello dipende un po’ dalla sensibilità delle persone. A me vengono battute che possono sembrare fuori luogo, o di cattivo gusto, ma non ci faccio caso: mi vengono perché magari a me fanno ridere e mi fa piacere trovare altre persone che possano ridere di quella cosa. Però mi rendo conto che la sensibilità degli altri non dipende da me, chiaramente: ognuno è libero di vederla come preferisce e se qualcuno mi dice “Va beh, Isa, non esagerare però”, chiedo scusa. A me viene da farlo perché, personalmente, mi fa sentire meglio.
Fare fumetti è un lavoro fatto di isolamento, di solitudine. Com’è poi uscire da quella dimensione, dopo mesi passati su un progetto?
Questa è la prima volta che mi fanno una domanda del genere, molto umana e su cui non riflettono in molti.
In effetti è proprio così. Credo che per fare questo lavoro si debba avere un’indole asociale, di base. Proprio ieri ne parlavo con dei colleghi fumettisti: questo è un lavoro che ti fa perdere ore e giorni di vita a un tavolo, da solo, a fare disegni e scrivere storie. Se non sei portato a passare tanto tempo da solo, non è sicuramente il lavoro che fa per te. Ci sono stati dei periodi complicati in cui mi chiudevo nel disegno come via di fuga, e mi aiutava a farmi stare meglio; poi invece ci sono dei periodi in cui le cose vanno bene e riesco a viverlo in maniera più sana e tranquilla. È anche un rifugio. E quando poi si esce allo scoperto, sembra un po’ di uscire fuori dall’acqua e riprendere a respirare dopo essere stati a lungo in apnea.
Quest’estate, per esempio, ero sotto consegna e chi mi conosce nel privato sa quante settimane ho passato rinchiusa tra agosto e settembre. È stato psicologicamente pesante, perché dopo un po’ il cervello comunque reclama un raggio di sole, una chiacchierata con un altro essere umano… Però noi fumettisti abbiamo tanta resistenza, sicuramente più di persone che svolgono altri tipi di lavori.
Del resto, non è un lavoro 9 to 5…
No, infatti. Non ci sono orari predefiniti: a volte cominci alle 9 di mattina e stacchi alle 3 di notte, a seconda della consegna. Devi sapere che un po’ della tua vita la sacrifichi, ma quando lo fai per passione in realtà non te ne accorgi, non la percepisci come una mancanza. Anche perché credo che il fumetto per chi fa il fumettista, il disegno per l’artista o la musica per il musicista dia della serotonina, o qualcosa di simile. C’è qualcosa nel cervello che prova piacere nel passare quel tempo lì, a fare quelle cose, e quindi lo si avverte di meno. Sono capitati periodi della vita in cui ho fatto lavori più standard, per così dire, che mi rubavano tutte le ore di lavoro, per cui dopo non avevo la testa di mettermi a disegnare. In quel periodo ne ho sofferto, perché sentivo che mi stavo privando di una cosa che a me piaceva tanto. Per fortuna, dopo allora, non è mai più successo. È servito però a farmi capire che se hai questo genere di passione non puoi toglierla: la reprimi, la spingi dentro, ma prima o poi deve venir fuori.
Se un* ragazzin* ti chiedesse suggerimenti per fare questo lavoro, cosa risponderesti?
“Pensaci un attimo [ride], è dura”. Vorrei che qualcuno in passato mi avesse detto quanto fosse pesante… Più che pesante, quanto ci fosse da faticare, nel settore. Vorrei che ci fosse un po’ più di sincerità nel parlare di questi argomenti. È chiaro che questa passione, se nasce, nasce fin da piccoli. Te ne accorgi: quando un bambino inizia a passare tante ore a voler fare disegni eccetera, lì sai che può esserci un talento in quel senso, che dev’essere accompagnato. Purtroppo all’inizio i miei genitori non supportavano questa passione, non lo vedevano come un mestiere.
I genitori spesso pensano di fare del bene, chiaramente, guardano al futuro; ma non si rendono conto che reprimono una parte fondamentale del nostro essere, e non la puoi togliere, questa cosa. Il mio suggerimento, in generale, se un genitore ha dei bambini con questa predisposizione è di supportarli sempre, farli crescere, indirizzarli verso delle scuole e dargli speranza. A un ragazzino direi di prepararsi a una vita di sacrifici sociali, ma ne avrà tanta soddisfazione.
Parlando di scuole, pensi che in Italia i percorsi che ci sono preparino a sufficienza alla vita reale dell’autore o del fumettista?
Non sono la persona più adatta a rispondere perché non io non ho fatto scuole di fumetto, sono nata come autodidatta. Avrei sempre voluto, ma i prezzi erano proibitivi per le mie tasche, per cui ho sviluppato la mia passione privatamente, magari confrontandomi con altri fumettisti che mi davano consigli. Da quello che però sento dai colleghi che hanno fatto delle scuole, quando entrano davvero nel settore si rendono conto che l’ambiente è molto diverso da quello che avevano idealizzato. Molti lamentano il fatto che non ci sia focus sulle questioni pratiche, burocratiche: questa forse potrebbe essere una cosa da migliorare. Mi baso su quello che ho sentito da altri, quindi magari la situazione è migliore di come io la immagini, ma a prescindere fa comunque bene insegnare ai ragazzi come muoversi all’interno di questo mondo: come avere un agente, come non farsi truffare, come non svendersi, anche questo dovrebbe essere insegnato.
Stiamo arrivando alla fine di questa nostra bella intervista, per cui ti chiedo: puoi anticiparci qualcosa sui tuoi progetti futuri?
Allora, ho lavorato, sempre per BeccoGiallo, a un altro fumetto, di stampo completamente diverso. È ambientato in Italia e ha per protagonisti tre adolescenti e tre anziani, e dovrebbe uscire a febbraio [veniamo interrotte dalla voce registrata che da informazioni, ndr]. Il problema è che non abbiamo ancora deciso [veniamo DI NUOVO interrotte dalla voce registrata che da informazioni, ndr]… Dicevamo, non abbiamo ancora deciso un titolo definitivo, per questo non mi sbilancio ancora tanto. [veniamo NUOVAMENTE interrotte dalla voce registrata che da informazioni, ndr] Ok, forse ce la facciamo… Dicevo, questo progetto probabilmente verrà ufficialmente annunciato all’inizio del prossimo anno. Per il resto, ti dico la verità, mi sto prendendo un attimino di pausa; quando la mia mente sarà sgombra da questi progetti, sicuramente la mia testa sarà in grado di sviluppare nuove idee.
Isa, grazie mille per il tuo tempo e per questa bellissima intervista. Ci rivedremo presto!
Nonostante le difficoltà tecniche – la voce registrata che ci interrompeva, l’essere accampate in piedi sotto a una statua – e la stanchezza che tutt’e due ci portavamo addosso, fare questa chiacchierata con Isa è stato davvero piacevole e stimolante. Mi ha fatta incuriosire al suo lavoro ed è stata estremamente aperta nell’affrontare tematiche delicate con grande leggerezza e solarità: la lezione di Mel Brooks l’ha imparata bene.