La seconda stagione di Squid Game sta letteralmente distruggendo ogni record di visualizzazioni su Netflix, piazzandosi alle spalle solo di un colosso come Mercoledì (che supererà a breve). È arrivato il momento di sedersi e cercare di capire come mai la serie coreana più vista al mondo non può proprio lasciarvi indifferenti (neanche nella seconda stagione)
152.5 Milioni di visualizzazioni.
“Third most-watched TV season on Netflix“, dietro solamente alla prima e a “Mercoledì“.
Questi i risultati raggiunti da SQUID GAME 2 in sole tre settimane: perchè iniziare così questo pezzo? Per mettervi in guardia sul fatto che, dopo che praticamente chiunque fosse interessato ha visto la nuova stagione della serie, stavolta mi son concesso un paio di piccoli spoiler – nulla di che, ovviamente non svelo gli snodi principali della narrazione – ma in ogni caso, penso sia giusto avvertirvi, se decidete di proseguire nella lettura.
Ancora qui? Bene… che il Gioco inizi (non ho resistito, sorry)
«Are You Not Entertained?»
Urla un rabbioso Russell Crowe alla folla dell’arena, nel primo “Gladiator“, dopo aver ucciso i propri avversari, in quel tripudio di sangue e ardimento che si potrebbe riassumere con il motto “Panem et Circenses”, Pane e Giochi, con il pubblico che si esalta a vedere gente morire per il proprio divertimento.
A ben guardare, è un po’ lo stesso piacere sottile che ha portato al successo “Squid Game” al suo debutto sulla piattaforma, nel Settembre 2021, che pare quasi un tempo lontanissimo, che ci vedeva reduci da un anno che potremmo definire “Horribilis”, con questa serie coreana in cui non sembrava credere del tutto neanche Netflix (o avete dimenticato che da noi venne proposta senza manco uno straccio di doppiaggio, inizialmente?).
Un fenomeno mondiale, per un risultato in breve notevolissimo, se lo si mette in prospettiva col fatto che il suo creatore e regista, Hwang Dong-hyuk, ha passato 10 anni a provare e riprovare a vendere questa sua opera, sino all’incontro con la Grande N che ha staccato l’assegno per produrla, e mai investimento fu più ripagato, tra premi e merchandising.
Ma cosa convinse il pubblico a guardarla, vincendo persino la resistenza di chi rifugge la visione coi sottotitoli, calamitandone l’attenzione? Perché il passaparola va bene, così come quel sentimento da “lo guardano tutti, devo farlo anche io” (che genera per equilibrio anche il suo esatto contrario), e il fatto che Netflix è ormai radicata nel tessuto culturale.
La vittoria di Squid Game
Scavando al nocciolo, la verità è che “Squid Game” ha saputo, onestamente furbo, suonare molti campanelli giusti: In primis, il sempiterno tema del “Homo Homini Lupus” (ormai, latino più, latino meno), l’uomo che è un lupo per gli altri uomini. Siamo tutti prede, sinché qualcuno o qualcosa, che sia il nostro sabotarci o la vita stessa, ci mette nel proverbiale angolo, costringendoci a tirare fuori il peggio di noi.
È un tema facile da riconoscere, un tema che, specialmente in quel periodo, specialmente in quei tempi incerti, risuonava di un suo fascino, quasi perverso, quanto quello di vedere persone lottare sino alla morte, come moderni gladiatori in una infantile arena, appunto.
Ecco, il trucco alla base di tutto: presa di per sè, la trama di “Squid Game” non ha nulla di originale, a suo modo è anche derivativa (“Battle Royale“, l’influenza più evidente). Un gruppo di persone costrette a giochi mortali, in una gara senza esclusione di colpi, sotto lo sguardo di ricchi viziosi che rimangono a guardare dall’alto di una ideale torre d’avorio.
A differenza di altre produzioni “simili” (penso ad “Alice in Borderland“, ad esempio), Il Gioco del Calamaro ha puntato sul contrastro tra diletto infantile e morte adulta, vera, tangibile, senza sci-fi di sorta, solo vera disperazione, efferata, un contrasto indovinato, come tutta una simbologia facilmente decodificabile a prima vista e senza troppi spiegoni.
I tre simboli, derivati da quelli del gioco in questione, cerchio, quadrato e triangolo, i colori sgargianti, le geometrie alla Escher, le tute e le maschere, destinati a diventare subito iconici (e difatti lo sono diventati).
Tutto ha contribuito a rendere appetibile la serie anche allo spettatore distratto, quello che passa più tempo a sfogliare il catalogo delle novità che a guardare qualcosa, e che alla sola vista dell’immagine promozionale con quella enorme bambola dallo sguardo fisso, o del trailer, si è trovato immediatamente incuriosito.
Ci sono degli indovinati colpi di scena (alcuni forse telefonati, altri meno), e sopratutto una bella costruzione dei personaggi che riescono ad essere convincenti, ad avere quel senso, quell’obiettivo, ad ottenere il tifo del pubblico (anche se appare chiaro come, mano mano, sono solo quei tre / quattro a sorreggere veramente la storia).
“Squid Game” si è così rivelato un buon racconto di genere, che si guadagnò il diritto di essere l’argomento di discussione in ufficio davanti alla macchinetta del caffè, e che voleva sopratutto descrivere il proprio Paese d’origine attraverso la lente della narrazione: come fu per “Parasite“, la serie di Dong-hyuk ebbe il pregio di mostrare il tessuto sociale della propria nazione, uno spiraglio in una quotidianità che l’autore sentiva su di sè e che ci restituì attraverso la lente distorta di una specie di “Mai Direi Banzai” dell’orrore (o di “Giochi Senza Frontiere“, se preferite).
Il resto, proverbialmente, è Storia delle Serie TV, e quel finale, aperto quanto bastava, si prestava senza errore ad essere cavalcato da Netflix, cosa che puntualmente ha fatto.
Squid Game 2 alza la posta in palio, rischia… e vince ancora
Così arriviamo allo scorso 26 Dicembre, quando “Squid Game 2” è arrivato sulle nostre piattaforme, mettendo il suo creatore di fronte alla sfida più dura, di quelle che potrebbero anche distruggerti la carriera e far tremare le ginocchia: replicarne il successo.
Non facile, soprattutto perchè devi muoverti in un altro delicato equilibrio, quello tra raccontare qualcosa di nuovo e, al contempo, riproporre quegli elementi che gli spettatori si aspettano di ritrovare, quegli stessi che li hanno portati ad amare la serie la prima volta.
Così ecco nuovamente Lee Jung-jae e il suo Seong Gi-hun, il cui obiettivo è quello di riuscire ad estirpare la diabolica organizzazione che mette in piedi questo “Gioco al Massacro”.
Per farlo, si mette sulle tracce dell’unica pista che ha, il misterioso “Reclutatore”, non sapendo che, parallelamente, anche un altro uomo sta cercando risposte, il poliziotto Jun-ho (Wi Ha-joon), mosso da sentimenti personali, oltre che di Giustizia, come ben sappiamo.
Preso a sè, con alcune “spuntatine” qui e là, il primo episodio di questa seconda stagione sarebbe potuto essere anche un ideale epilogo della storia raccontata nella prima, come a voler mettere un punto su alcune questioni di fondo, introducendone sottilmente però altre, ossia quelle che ci servono per mettere in moto la nuova narrazione, che vede Gi-hun tornare su quella maledetta isola, e riprendere il suo ruolo di Giocatore 456.
L’uomo coglie in questo l’opportunità di rompere il gioco dall’interno, di portare gli altri “giocatori” dalla sua parte, non tenendo però conto di due fattori sostanziali: la natura umana e il fatto che la partita è truccata, cosa resa evidente dal fatto che l’affabile Giocatore 1 altri non è che Hwang In-ho, il cosiddetto Front Man, interpretato con glaciale efficacia dall’ottimo Lee Byung-hun.
C’è poi il solito carosello di caratteri, destinati a fare da cornice al tutto, dalla coppia madre-figlio, dalla ragazza incinta al rapper bullo e in totale disarmo, che ti instilla in corpo non esattamente il giusto tipo di tifo, e che vorresti veder sparire “in uno schiocco di dita”, se afferrate chi intendo (e poche storie, Choi Seung-hyun è stato bravissimo nel rendersi odioso oltre limite), sino all’autoproclamata sciamana.
Tutti loro, in misura diversa, servono a far provare empatia allo spettatore, ad accrescere la tensione dei giochi, a risaltare o meno su tutti gli altri, portandoci a seguirne le vicende.
Ma Dong-hyuk si rivela un narratore di razza, ben più di quanto si possa intendere ad una prima visione di questi episodi, impostando una scacchiera uguale ma diversa, che si andrà a sviluppare in molte più mosse (leggi, puntate) della precedente, sino ad arrivare al Matto finale con la terza e ultima parte.
Piccole grandi modifiche, come nella già citata galleria di personaggi, mettendoci stavolta nella condizione di guardare negli occhi una delle guardie mascherate.
Ma è procedendo con le puntate, che risulta chiaro come questo sia un racconto con un respiro ampio e differente, rispetto alla prima stagione, che in qualche modo bastava a sè.
Così, il regista e sceneggiatore decide di dare un valore diverso anche agli stessi giochi, dilatandoli, riducendoli, cambiandoli, smorzandoli persino con una sorta di ironia nerissima, creando contrasti tra il sangue e i cadaveri, e una levità maggiore che in precedenza.
Forse, perchè in questi tre anni, come pubblico, siamo in parte cambiati anche noi, e questo Dong-hyuk ha saputo percepirlo, modificando di qualche grado la rotta, ma sempre tenendo la bussola ben fissata sull’Uomo e, in questo caso, la sua cupidigia, famelica e cieca.
Questo ci porta all’elemento più importante di questi nuovi episodi, socialmente parlando: le votazioni.
Come in ogni creazione, in cui l’autore detta le sue regole e le cambia a suo completo uso e consumo, ecco il trucchetto per cui, stavolta, i giocatori possono decidere, con un voto, di abbandonare o meno la competizione, dividendo in parti uguali il bottino sin lì accumulato. Ma l’idea di essere abbastanza abili da potercela fare e la prospettiva di una vincita sempre più ricca, sono irresistibili, e questo il Front Man lo sa bene.
Lui è lì, in mezzo a loro, velenoso come un serpente e altrettanto manipolatore, pronto a tendere la mano salvo nascondere dietro la schiena quella col pugnale da conficcare a tradimento: è questa dinamica ad appassionare, questa partita tra il Cattivo e il Buono, ovvero Gi-hun, inconsapevole di essere destinato a perdere, costretto ad affrontare la realtà che nulla può cambiare la natura umana, così fragile, così feroce gli uni contro gli altri.
Qualcosa che percepiamo anche noi spettatori sin da subito, sin dal disvelamento di quel colpo di scena, e a quel punto è il “Come” a muovere la curiosità, mentre vediamo i giocatori di volta in volta premere il pulsantone e decidere se lasciare o raddoppiare, solo per dimostrarsi fallibili e persino più cinici e disperati che in passato.
Così cambia anche la critica sociale, cambia anche il modo in cui Dong-hyuk prova a sviluppare un discorso che rimanga coerente e focalizzato sulla sua Corea, ma stavolta con la consapevolezza che questo suo lavoro lo vedranno davvero in tutto il mondo, non più una speranza come artista, ma una certezza da Spada di Damocle.
Come non lo era la prima, parlo a livello personale beninteso, non ritengo neanche la seconda stagione chissà quale “Stato dell’Arte”, rimanendo in ogni caso un’ottima proposta di intrattenimento, forte anche del fatto che il discorso non si protrarrà troppo, e anzi è già destinato a concludersi al prossimo turno, già girato e in fase di post-produzione.
Una consapevolezza, quella di trovarsi di fronte ad un racconto compiuto, solo diviso in due, che mi ha portato ad apprezzare maggiormente questi episodi, in una qualche misura a renderli persino più interessanti come riflessione sulle debolezze umane.
Magari stavolta il tifo è stato meno acceso, magari stavolta ho faticato a trovare dei personaggi preferiti, concentrato com’ero sugli unici davvero fondamentali, eppure, quando la musica si ferma e si deve decidere tutti insieme cosa fare, è stato avvincente vedere la morale salire in cattedra, magari didascalica a tratti, ma dritta comunque al suo punto.
Di fatto, meritandosi il complimento migliore che si possa fare ad un’opera di questo tipo, in attesa della sua conclusione: può esservi piaciuta o meno, potreste averla apprezzata come esservi ritrovati a sbraitargli contro, alzando le mani a quel cielo infinito che sono i social, ma accidenti se sa sempre come non lasciarti indifferente!