Jim Shooter è stato senza ombra di dubbio, una delle figure più importanti nel mondo del fumetto americano negli anni Ottanta. Pensate che era l’ Editor-In-Chief (caporedattore/direttore editoriale) della Marvel in un periodo che viene ancora oggi ricordato come uno dei più creativi, belli e coinvolgenti di tutta la storia della Casa delle Idee: pensate che sotto la sua direzione hanno visto la luce veri e propri capolavori quali il Daredevil di Frank Miller, il Thor di Walt Simonson e tante altre gemme che hanno impreziosito la Marvel di quegli anni. In una ricca intervista rilasciata al sito AIPT, Shooter ha criticato pesantemente il modo in cui oggi si scrivono e si vendono fumetti. Di seguito vi riportiamo le sue dichiarazioni, che mostrano un punto di vista sicuramente interessante e da cui trarre spunti per varie riflessioni:
Credo che alla Marvel, ma in generale nel mondo del Fumetto, abbiano in parte scordato in che genere di business si trovano a lavorare. Pare evidente che ci siano grandi talenti, là fuori. Basta sfogliare qualche albo per vedere che le immagini sono incredibili. A volte, però, non si racconta per bene la storia quanto si dovrebbe. A volte le pagine sono progettate apposta per vendere copie alle convention, non puntando al miglior modo di narrare. La scrittura è il problema. Nella maggior parte dei casi, non sono in grado di accettarla. Ci sono ancora autori brillanti, come Mark Waid, che ogni volta scrivono grandi storie, ma gran parte delle sceneggiature sono malate di quella che viene definita narrazione decompressa.
A raccontare una storia in una serie a fumetti ci mettono un sacco di tempo. Quel che Stan Lee metteva in sei pagine, oggi succede in sei mesi. Se oggi guardate le vendite della Marvel, che pubblica albi da quattro dollari l’uno, li vedete festeggiare se una serie vende più di trentamila copie. Ai miei tempi, il mondo era del tutto diverso. Nemmeno una delle nostre serie, su settantacinque, vendeva meno di centomila copie. Gli X-Men arrivavano a 750.000. E non parlo di qualche numero speciale o chissà che, ma di ogni singolo numero.
Non abbiamo mai fatto affidamento sulle copertine speciali. Se non una volta, per caso. Abbiamo realizzato una cover variant per il matrimonio di Spider-Man perché non riuscivamo a decidere se preferivamo avere dei civili sullo sfondo oppure eroi e supercattivi. All’epoca, la parola “variant” non sapevamo nemmeno cosa fosse e non la considerammo mai come una strategia di marketing. Oggi, invece, questi trucchetti sono ovunque e distraggono lo sguardo da quel che conta davvero. La gente si chiede quale sia il prodotto che promuovono. Dovrebbero raccontare una storia e raccontarla bene.
Una delle cose che imparai da Mort Weisinger, alla DC, è che tutto migliora sensibilmente quando vendi un sacco di fumetti. Una delle prime cose che feci, quando divenni EiC, fu riportare le serie nei loro tempi di produzione. Alcune, nel ’78, erano in ritardo di sei mesi. Sei mesi! Nel mio primo mese di incarico, era prevista l’uscita di quarantacinque serie. Ne spedimmo ventisei. Mi ci vollero tre mesi per correggere la situazione. Alla fine dell’anno, tutte erano puntuali e lo rimasero per dieci anni.
Una volta raggiunto questo risultato, una volta che avevo tutto sotto controllo, potevo preoccuparmi di migliorare il lavoro e il prodotto. Per migliorare il primo, ci vogliono degli incentivi. Pagammo meglio sceneggiatori e artisti e offrimmo il venti percento dei personaggi che creavano. Chiedete a Bill Mantlo se è felice di possedere il venti percento di Rocket Raccoon. Se creavi una nuova serie, l’un percento degli incassi era tuo per sempre. Pagavamo strumenti di lavoro, trasporti, bollette del telefono. Creammo un ambiente in cui valesse la pena lavorare. Niente male, se guadagni mezzo milione di dollari l’anno.
Poi creammo uno spazio per i prodotti creator-owned. La Epic era nata per quello. Chiedete a Jim Starlin se ne sia felice, ora che sta discutendo i diritti cinematografici per Dreadstar. Se hai i migliori autori, le vendite aumentano, hai più soldi da investire e altri grandi fumettisti si presenteranno alla tua porta. Avevamo con noi alcuni dei migliori di sempre, un sacco di grandi narratori che sapevano perfettamente quel che facevano. Non feci altro che levarmi dai piedi, lasciarli lavorare e concentrarmi sui giovani.
Prima della mia gestione, le storyline erano simili a quelle delle soap opera, che continuavano per sempre, senza mai una soluzione. Se non raramente. Io dissi ai nostri ragazzi che dovevamo puntare a delle unità narrative da vendere. Ovviamente, non c’era bisogno di spiegare una cosa del genere a Walt Simonson, per dire, ma tutti i più giovani pensavano di scrivere sceneggiature da soap opera.
Persino Chris Claremont, che scriveva un po’ con stile da soap, realizzava dei cicli e delle storie che tirassero le fila, a un certo punto. Una volta creata una coerenza su questo modo di raccontare, le vendite iniziarono a salire vertiginosamente. Che sorpresa! Il fumetto esce in tempo, lo trovi quando devi trovarlo ed è persino bello. E in più, sperimentavamo. A fianco del Thor di Simonson, c’era un artista geniale come Bill Sienkiewicz. Chris voleva lavorare con lui su New Mutants, Bill disse di voler sperimentare e io gli diedi carta bianca. E diamine, se quei due hanno colpito nel segno.
Non credo che sarebbe cambiato molto, ai tempi, se fossero esistiti i social media. Quando ho iniziato il mio lavoro alla Marvel stavamo raccontando una storia perfettamente progettata e documentata, anche tramite un mio amico psicoterapeuta, per essere sicuri della sua accuratezza. Il Calabrone finisce per crollare mentalmente e divorziare da Janet. Ma ci fu un errore nella storia: il disegnatore ritrasse Hank nell’atto di colpire Jan. Sarebbe dovuto accadere per caso, non volutamente. Divenne la storia di un maltrattatore di donne.
Ma ormai la gente aveva letto, sapeva che direzione stavano prendendo le cose, che Pym stava diventando una brutta persona. Iniziai a ricevere un sacco di lettere piene di odio, addirittura con minacce di morte. Andai da Stan Lee e gliele mostrai. Non avevo mai visto niente del genere. Mi rispose che erano identiche a quelle che riceveva quando scriveva Spider-Man, perché per alcuni Peter non poteva finalmente essere felice e avere una sua fidanzata. Gli feci notare che, in queste lettere, si dicevano cose serie, minacciose. Mi chiese in che stato fossero le vendite e, quando glielo dissi, rispose che andava bene così. Se parlano di te, va bene, significa che le fondamenta sono buone. Lasciali sfogare. Se non altro significa che ci tengono. E noi vogliamo che i nostri lettori ci tengano.
Capitan America un nazista? Ma stiamo scherzando? Jack si starà rivoltando nella tomba. Joe Simon scommetto che uscirà dalla bara per far fuori quei tizi. Una scelta del tutto sbagliata, perché tradisce completamente l’idea originale dei creatori. I fumetti non c’entrano niente con l’editoria delle riviste o con quella libraria. Un fumetto ha molto più in comune con uno scotch sigle malt che con quel genere di prodotti. Si tratta di un ambiente in cui conta la relazione, la sintonia con il pubblico, se vuoi vendere.
Quando ero ragazzino non vedevo l’ora di scoprire ogni mese cosa sarebbe successo a Spider-Man. Non me ne fregava niente della copertina e dell’edizione. Era tutta questione di voler bene a Spider-Man, il personaggio, di essere curiosi di quel che gli accadeva. Se i lettori si perdono un numero e la cosa non gli dispiace, allora sei sconfitto. Ecco perché bisogna capirli, creare con loro una relazione. Stan era andato ancora oltre e si era spinto fino a creare un legame con gli artisti e gli autori. Tutti sentivano che lui era loro amico. I lettori gli scrivevano per confessarsi come dei bambini con il prete: “Sto male, Stan, perché ho fatto questo o quest’altro”. Quando il pubblico si sente coinvolto, allora hai vinto. E, quando non lo è, non importa quanto sono brillanti le tue copertine 3D.
All’epoca, quelli dei piani alti mi facevano proposte tipo abbassare il prezzo delle serie che vendevano meno e aumentare un po’ quello di X-Men, ma non avrebbe funzionato. Non c’è prezzo basso abbastanza da permetterti di coinvolgere i lettori in una storia che non li incuriosisce e, se avessimo alzato quello di X-Men, il pubblico si sarebbe sentito tradito.
Ho appena visto il film Wonder Woman, ed è carino. Eppure ho sentito in giro la gente lamentarsi del fatto che non sia fedele all’originale. Facciamo una cosa: usciamo da qui e chiediamo a mille persone cosa sanno di Superman. Sentiremo dire sempre le stesse cose. Il Daily Planet, Lois Lane, Clark Kent. Nessuno vi parlerà di Mister Mxyzptlk o della Fortezza della Solitudine. Ecco, quel che quelle mille persone citano va rispettato. Tutto il resto è flessibile, è la parte su cui si può lavorare, cambiare qualcosa.
Wonder Woman aveva il costume rosso, bianco e blu con le stelle perché fu creata durante la guerra. A nessuno importa più. Se chiedete di lei alla gente comune, va già bene se sanno che è un’amazzone. Quindi sì, nel film hanno fatto dei cambiamenti e va bene così. Il costume ha altri colori. Quindi chi si lamenta di un tradimento delle intenzioni originali, sta cavillando, non sa nulla del capitale di storie e di temi che sono nati con il tempo. Allo stesso tempo, un autore che pensa di poter fare tutto quel che gli pare con un personaggio solo perché adesso è lui a scriverlo, quasi sempre sbaglia. Quando Walt Simonson prese in mano Thor, non fece un reboot e non gettò via il passato. Semplicemente, raccontò storie grandiose.
Voi che ne pensate delle dichiarazioni di Jim Shooter? Aspettiamo i vostri commenti, ci piacerebbe aprire un vero e proprio dibattito sulle questioni sollevate in questa ricca intervista.
Fonti: Aventures in poor taste | Gage Skidmore
Traduzione dell’intervista tratta da BadComics.it