La miniserie di Minetaro Mochizuki, premiata al Festival d’Angoulême, è finalmente arrivata in Italia grazie a J-Pop. Vi raccontiamo com’è questo sorprendente manga
Partiamo dalla fine; o da metà. Mi sono innamorata di questi cinque, molesti, perculanti ragazzini.
Potrebbe non aver senso parlare di Chiisakobe iniziando così, eppure il titolo dell’opera in quattro volumi di Minetaro Mochizuki fa riferimento alla leggenda di chiisakobe – no – Sugaru vale a dire, Sugaru dei bambini.
J-Pop ha portato in Italia un titolo per lettori sempre più esigenti, un seinen che affronta il turbinio dell’animo umano quando tutto di colpo cambia, e le nostre spalle diventano intollerabili al troppo peso che si ritrovano a sopportare.
Le spalle sono quelle di Shigeij, che dopo la morte improvvisa dei genitori dovuta a un devastante incendio, si ritrova a capo della ditta edile Daitome, l’impresa di famiglia che ha sede a Tokyo nel quartiere Ichi-no-machi.
Il fuoco ha raso al suolo anche l’orfanotrofio del quartiere e Shigeij, facendo ritorno a casa, la ritroverà abitata da cinque ragazzini che Ritsu, sua amica e improvvisata governante,decide di ospitare.
Dicevamo la Leggenda di Chiisakobe – no – Sugaru, appunto. Tanto tempo fa, l’Imperatore chiese a Sugaru di procurargli quanti più bozzoli di bachi da seta potesse. Sugaru, fraintendendo le parole dell’Imperatore, condusse presso di lui un gruppo di orfanelli. Questo perché bambino e bozzolo in giapponese si pronunciano nello stesso modo. La lingua giapponese è piena di questi divertenti giochi di parole.
Minetaro Mochizuki è un ottimo narratore, oltre che un disegnatore di pregio. Tuttavia Chiisakobe non è un’opera originale, ma l’adattamento di un romanzo scritto dal Maestro Shugoro Yamamoto nell’ormai lontano 1957, ambientato nel periodo Edo. Trasposto ai giorni nostri, Chiisakobe è un racconto profondo sull’umano sentire, sulle difficoltà dei rapporti quando vengono sovrastati dal dolore. Sentimento questo che si manifesta in ogni essere umano in maniera sempre diversa e senza guide certe. Non c’è un modo giusto per affrontarlo; ciò che è certo è che o lo si fa o si viene schiacciati.
(Sì. Sotto tutti quei capelli c’è Shigeij)
Mochizuki dirige il racconto in maniera lineare e pulita. Apre il campo e lo restringe sui suoi personaggi, concentrandovi tutta l’attenzione della scena che alle loro spalle è essenziale; tecnica utile per mettere a fuoco le mimiche facciali degli attori che, a volte, sembrano davvero guardare verso una macchina da presa. Straordinaria (sul serio) è l’attenzione di Mochizuki per i dettagli di cui si serve per costruire la personalità dei personaggi. I particolari di uno zaino, di un grembiule.
Come vengono tenuti in mano gli oggetti; la postura.
Minuzie che compongono le tavole in rapida successione quasi da farne un prezioso girato.
Tra i tanti pregi dell’opera c’è sicuramente quello di aprire un’interessante finestra sul Giappone, i suoi usi e le sue consuetudini. La modalità con cui viene affrontato il lutto; l’incomprensibile – per noi – mancanza di abbandono ai sentimenti dei protagonisti, sempre così composti e pronti a fare dell’etichetta sociale la priorità assoluta.
Shigeij si adatta male, per non dire malissimo a tutto questo. Per questo seguire la sua presa di coscienza, l’orizzonte più ampio che gli si prospetta davanti grazie a Ritsu e agli sfortunati ragazzi che involontariamente si trova a difendere, fa di Chiisakobe non solo una lettura bella e profonda, ma interessante e per nulla scontata.
Opera vincitrice del Prix de la série al Festival di Angoulême nel 2017, Chiisakobe è una delicata intrusione nella vita degli altri. Vita di persone che vale davvero la pena di conoscere.
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