Questa settimana torniamo indietro fino al 1990, anno in cui ebbe luogo un pandemonio davvero incredibile: tenetevi forte, perché oggi si scatena la Royal Rumble!
Questa notte, al Chase Field di Phoenix, Arizona, andrà in scena l’evento di wrestling più bello dell’anno. Infatti, è in programma la trentaduesima edizione della Royal Rumble: in un match maschile e – dall’anno scorso – uno femminile, trenta partecipanti si sfidano con l’obiettivo di eliminare i propri avversari buttandoli fuori dal ring al di sopra della corda più alta. L’ultimo rimasto nel quadrato vince e ottiene un incontro per il titolo assoluto a Wrestlemania.
L’evento più bello dell’anno, dicevamo. Sì, perché se è vero che Wrestlemania è lo Showcase of the Immortals, la finale di Champions League del wrestling, bisogna ammettere che non c’è match più bello ed emozionante della “rissa reale” (ricordatevi di leggere sempre con l’accento di Dan Peterson, nda). Pensateci: sul ring cominciano in due e, a intervalli di centoventi secondi ciascuno, parte un countdown, che il pubblico accompagna scandendo i numeri ad alta voce. Al suono della sirena, quindi, entra un nuovo lottatore, fino ad arrivare a trenta, come detto. E, se nel frattempo non avvengono eliminazioni, si può arrivare a riempire il ring di contendenti fino all’inverosimile, generando quel “pandemonio” (sarò ripetitivo ma… sempre quella cosa di Dan Peterson…ci siamo capiti…) che ci piace tanto quando guardiamo questo sport-spettacolo!
E poi c’è l’emozione del countdown che precede ogni nuova entrata, quando stai col fiato sospeso in attesa di scoprire chi arriverà dal backstage: sarà il mio beniamino? Qualche grosso nome? Oppure una mezza tacca che farà da comparsa, giusto il tempo di farsi buttare fuori? Oppure – questa è la preferita di chi scrive – l’inatteso ritorno di qualche leggenda del passato? E la reazione del pubblico può essere un’ovazione adrenalinica o un assordante buuu!, a seconda di chi si presenti. Senza sosta, per più di un’ora!
Un copione collaudato e di successo che si ripete da decenni. Come avvenne anche il 21 gennaio del 1990, quando la Rumble si disputò ad Orlando, in Florida.
Il compito di aprire le danze della prima rissa reale degli anni Novanta andò a un “cattivo”, “The Million Dollar Man” Ted Dibiase, che l’anno prima era invece entrato con il numero trenta, e ad un beniamino del pubblico, Koko B. Ware, quello che si accompagnava a un pappagallo. Per restare in tema faunistico, alla Rumble del ’90, però, la prima vera manifestazione di grande entusiasmo del pubblico si registra per l’entrata di Jake “The Snake” Roberts, in quel periodo arcirivale proprio dell’uomo milionario. Neanche il tempo di respirare che riparte il countdown e, da dietro le quinte, spunta Macho King “Randy Savage” (in quegli anni, fra vincitori di tornei, autoproclamazioni e sfide varie, di “re” del wrestling ne contiamo decine) che corre subito a dare manforte a Dibiase. Perché è pur vero che nella rissa reale si segue il motto “ognuno per sé” ma, se proprio c’è da collaborare, lo si fa esclusivamente con quelli della propria categoria! È quasi una questione sindacale. Ognuno per sé ma “Dio provvede per tutti”, avrebbe detto mia nonna.
E l’antica saggezza popolare ci azzecca sempre, anche nel wrestling, tanto è vero che le forze si riequilibrano con l’arrivo del seguente contendente: “Rowdy” Roddy Piper, lo scozzese-americano con un passato da nemesi di Hulk Hogan ed un presente da favorito del pubblico, che si schiera con il serpente e ristabilisce la parità sul quadrato. Purtroppo per Jake “The Snake”, però, neanche dieci minuti dopo, Randy Savage pone fine alla sua esperienza nella Rumble. Ma il karma è sempre in agguato, per cui subito dopo anche Macho viene eliminato da un partecipante recentemente unitosi alla contesa: “The American Dream” Dusty Rhodes.
La storia di Dusty nella World Wrestling Federation è abbastanza controversa: ex campione del mondo della National Wrestling Alliance (la più grande organizzazione di wrestling fino a fine anni Ottanta), una volta passato alla corte di McMahon, gli venne fatto interpretare il personaggio del “common man”. Che di per sé non sarebbe un problema, se non fosse che l’uomo comune, secondo McMahon, doveva indossare un costume nero con dei ridicoli pois gialli. Ora, qualcuno sostiene che fosse un tentativo di umiliare Rhodes, che prima era una stella della concorrenza, qualcun altro invece riporta come sia stato lo stesso Dusty ad aver ideato il personaggio e l’outfit. Fatto sta che la presenza di Rhodes da lottatore in WWF durò solo due anni, giusto il tempo di una rivalità con Savage, qualche balletto con un’attempata valletta e poco più.
Tornando al match: non potevano mancare i giganti. Prima con l’ingresso di Andre “The Giant” che, seppur ormai con evidenti problemi di deambulazione (Andre morirà tre anni dopo), era ancora una delle star più remunerative al botteghino. Il colosso francese ne elimina un paio come moscerini, giusto per gradire, prima di essere buttato fuori dallo sforzo comune dei due Demolition, che mandano il pubblico letteralmente in visibilio. D’altro canto, negli anni Ottanta e nei Novanta, eravamo molto meno sgamati di oggi e credevamo davvero che per sconfiggere un titano ci volesse un potere sovrannaturale. Poi c’è Akeem, un omone che prima si chiamava One Man Gang e incuteva timore col suo aspetto da motociclista incazzato combinato a una stazza ciclopica, ma poi ha improvvisamente cominciato a farsi chiamare “The African Dream”, a vestirsi con una tutina blu ed a muoversi in maniera decisamente improponibile. E, di fatto, la sua prestazione nella rissa reale è una diretta conseguenza di quel potenziale non sfruttato. Infine c’è Earthquake (o “Teerreeemoto” se volete dirla alla Dan) che, in pochi secondi, ne elimina due e non sembra intenzionato a fermarsi. Ci vuole una coalizione di ben cinque avversari per farlo uscire da lì!
Ma il momento topico di questa Royal Rumble è sicuramente la presenza sul ring, allo stesso tempo, di Ultimate Warrior e Hulk Hogan, rispettivamente ventunesimo e venticinquesimo nella lista di entrata. Ricordo che, mentre i due si guardavano negli occhi in attesa di mettersi le mani addosso, ero esaltato e titubante allo stesso tempo. Hogan era il mio idolo indiscusso ma non volevo che andasse contro Warrior, uno dei “buoni” più adrenalinici di sempre. Dal volume del pubblico dell’arena, era evidente che in tanti condividessero le mie stesse emozioni. Ma non era ancora tempo che i due si scontrassero. Qualche scaramuccia, un doppio “braccio teso” e tutto rimandato a qualche mese dopo. Infatti Warrior viene eliminato da Rick Rude e The Barbarian, spinti (involontariamente?) da Hogan, mentre l’Hulkster procede a sbarazzarsi degli ultimi avversari rimasti e a vincere – ça va sans dire – la prima di due Rumble consecutive.
La miccia, però, era stata irrimediabilmente accesa e la bomba sarebbe scoppiata l’1 aprile dello stesso anno, allo SkyDome di Toronto, dove avremmo assistito a “The Ultimate Challenge”. Il campione del mondo Hulk Hogan contro il campione intercontinentale Ultimate Warrior. Entrambi i titoli in palio per la prima volta. Avremmo finalmente scoperto quale forza era dominante: l’Hulkamania o il potere del guerriero? Qui ci starebbe bene un urlo alla Dan Peterson, in effetti.
Gianluca Caporlingua