Il 4 marzo 2019 se n’è andato, a 61 anni, anche Christopher Alan Pallies, che i fan del wrestling conoscevano con lo pseudonimo di King Kong Bundy. Ecco chi era questo incredibile lottatore
Più che un nome d’arte, King Kong Bundy era un ritratto di questo colossale lottatore: oltre un metro e novanta di altezza per quasi duecento chili di peso, calvo e senza sopracciglia, con l’espressione perennemente minacciosa. D’altro canto, Christopher Alan Pallies (questo era il suo vero nome) rimase fedele alla linea dall’inizio alla fine, interpretando la parte del cattivo sempre e comunque.
Fra qualche giorno, esattamente il 16 marzo, ricorrerà il trentaquattresimo anniversario dal suo debutto nella World Wrestling Federation, in una puntata di WWF Championship Wrestling, contro l’italo-americano Mario Mancini. Il colosso si presenta con occhiali da sole e mantello scuri, tanto per incutere ancora più timore e risolve la contesa in tre minuti scarsi, con il prevedibile annientamento dell’avversario. I commentatori – Vince McMahon e il nostro connazionale, la leggenda vivente Bruno Sammartino – rimasero letteralmente impressionati dalla stazza del nuovo prospetto, paragonato subito all’altro gigante della federazione, Andre The Giant.
Inoltre, sin dall’esordio, in uno sfoggio di potenza, per sancire la sua vittoria contro il malcapitato di turno, Bundy esigeva che l’arbitro contasse fino a cinque, invece che il consueto uno-due-tre. Ma non si trattava solo di forza bruta, perché il possente lottatore era anche sorprendentemente agile. Se ne accorse, per esempio, “Special Delivery” Jones nella prima edizione di Wrestlemania, tenutasi al Madison Square Garden nel 1985. Il match dura solo pochi secondi, giusto il tempo di una bear hug (la mossa usata dai lottatori più grossi per stritolare i contendenti in un abbraccio non proprio amichevole), un lancio dell’avversario contro il paletto del ring a mo’ di sacco di patate e poi due dei principali colpi nel suo arsenale: l’avalanche – con il petto del gigante che si schiantava sul rivale tramortito all’angolo del ring – e infine lo splash, un tuffo sopra l’avversario al tappeto, seguito dallo schienamento vincente.
https://www.youtube.com/watch?v=-FD_bwVxxZk&feature=youtu.be
Dopo essersi unito alla stable della Heenan Family, Bundy comincia a confrontarsi con le top star della federazione. Prima Andre The Giant – e chi altri, se no? – e poi il campione del mondo Hulk Hogan, infortunando entrambi i lottatori. Durante la puntata di Saturday Night’s Main Event dell’1 marzo 1986, il colosso interferisce nel match di Hogan e lo attacca brutalmente, ponendo le basi per quello che sarebbe stato l’incontro più importante della propria carriera: uno steel cage match a Wrestlemania II, l’unica edizione dello show che si disputò in tre diverse location: il Nassau Veterans Memorial Coliseum di Uniondale (New York), il Rosemont Horizon di Rosemont (Illinois) e la Memorial Sports Arena di Los Angeles. Il main event fu disputato proprio in California.
In un video registrato in precedenza vediamo Hogan allenarsi in palestra, non al meglio della condizione. Infatti il campione è costretto a un evidente bendaggio sulle costole per via del precedente attacco subito dal pericoloso avversario. Nonostante il suo dottore gli abbia vivamente sconsigliato di lottare a Wrestlemania, il campione è in cerca di vendetta e non sente ragioni. L’incontro nella gabbia non sarebbe stato cancellato da niente e nessuno! Sul ring di Los Angeles, la contesa è senza esclusione di colpi. Bundy approfitta dell’infortunio del rivale, colpendolo ripetutamente dove prima c’erano le bende. Ma sapete com’è l’Hulkster: quando sembra sul punto di soccombere, una scarica di adrenalina lo riporta in vita.
Il resto lo fa la gabbia, che Hulk usa come arma contundente contro la testa sanguinante di Bundy. In uno steel cage match vince chi schiena l’avversario sul ring o chi scavalca le pareti della gabbia e tocca il suolo al di fuori del quadrato con entrambi i piedi. E questa è la strada scelta da Hogan. Come in un film horror, sorprendentemente, il malvagio gigante fa ricorso alle ultime forze per alzarsi dal tappeto e afferrare una gamba del nostro eroe. Ma è tutto inutile, i sogni di gloria del King Kong vengono infranti da un calcio del campione e dalla scalata finale verso la vittoria della contesa.
Nel corso degli anni, Hulk avrebbe sempre ricordato quell’avversario e quel match così cruento con molto rispetto. Tanto da commentare così pochi giorni fa, sulla sua pagina Facebook, la notizia della morte dell’avversario:
«Sono distrutto per la scomparsa di King Kong Bundy, solo grandi ricordi, R.I.P. big man, al nostro prossimo incontro. HH»
Dopo una pausa di alcuni anni, Bundy sarebbe tornato alla WWF nel 1994 come membro di un nuovo gruppo di cattivi, la Million Dollar Corporation di Ted DiBiase. Nonostante una prestigiosa vittoria durante le Survivor Series dello stesso anno, però, il possente lottatore non avrebbe più raggiunto il livello degli anni Ottanta, subendo un’umiliante eliminazione alla Royal Rumble del 1995 e soccombendo all’imbattibilità di Undertaker a WrestleMania XI.
Ma il merito di un personaggio come King Kong Bundy trascende le vittorie o le sconfitte della propria carriera. Per fare un grande eroe è necessario che a lui si opponga un grande cattivo, il cui ruolo, nell’economia della narrazione, è forse ancora più importante di quello della propria controparte. E lottatori come Christopher Alan Pallies sono stati fondamentali per rendere credibile il racconto dell’eterna lotta fra il bene e il male rappresentata in questo folle e appassionante sport-spettacolo che si chiama wrestling. E per questo, noi fan lo ricorderemo sempre con affetto.