Una grande cavalcata tra le storie che hanno ridefinito il mito degli Avengers nel nuovo Millennio
La fortuna mondiale di cui oggi gode il franchise degli Avengers non viene certo dalle pagine scritte, bensì dalle loro controparti su grande schermo, protagonisti di una saga multimilionaria che (se ne facciano una ragione i talebani della critica da salotto) ha rivoluzionato il rito della visione in sala, ricreando atmosfere e attese che non si vedevano almeno dagli anni ’70.
DIVIDERE I VENDICATORI PER UNIRE LA MARVEL
Negli anni ’90, a conquistare le classifiche di vendita regnavano incontrastati i mutanti con le loro millemila testate, legate più o meno al deus ex machina Chris Claremont: ma sul finire del decennio la stella andò lentamente spegnendosi, complice prima di tutto un impoverimento del concept alla base dei serial, ma soprattutto a causa di una saga che rappresenta, a tutt’oggi, un vero e proprio spartiacque della Marvel: Avengers Disassembled! (Avengers vol.1 #500-503, Vendicatori Divisi in Italia su Thor –Panini- nn. 73/77).
Per la casa editrice di Park Avenue eravamo in piena rivoluzione: Brian Michael Bendis, (sceneggiatore fino ad allora di origini indie per Caliber Press e Image Comics) stava rivoltando come un guanto il concetto di Vendicatori, sciogliendo ufficialmente il gruppo storico e contemporaneamente, con un corto circuito leggendario, ponendo gli stessi Nuovi Vendicatori nel cuore pulsante dell’epica Marvel. Il tutto dando il via all’epoca delle grandi(ssime) saghe al ritmo di una all’anno che scandivano il tempo e la narrativa di tutto il Marvel Universe, con House of M e la pietra angolare Civil War. Si sarebbero succedute altre saghe, e da lì a poco come vedremo gli Avengers sarebbero morti e rinati di continuo: ma il succo di tutto quanto è che dal 2004, a quasi quarant’anni dalla nascita, la Marvel Comics veniva rivoluzionata dalle fondamenta, e con lei la sua continuity e il suo futuro narrativo: al centro si erano piazzati, nuovamente e stavolta per restarci, i Vendicatori.
MONDO AVENGERS
Non stiamo qui a fare le pulci alle varie testate: ma se prima tutto era filato liscio (come abbiamo detto, la testata storica Avengers aveva passato il traguardo del cinquecentesimo numero) adesso tutto si stava sminuzzando per rinascere più coeso e vivo di prima. Le testate vendicative, che fino al nuovo secolo avevano lasciato il palcoscenico per germinare su diversi serial al brand X, si moltiplicarono a vista d’occhio, visto il successo: nacquero quindi New Avengers e Mighty Avengers, con incursioni sporadiche di Secret Avengers e così via. Come detto un mondo tutto nuovo e da scoprire, che nasceva parallelo ma diviso con un MCU agli albori: è infatti del 2008 il primo Iron Man di John Favreau, film che rilanciò l’idea stessa del vendicatore in armatura e di fatto aprì le danze per il Marvel Cinematic Universe. Ma come storia vuole, nessuna espansione vive senza conoscere implosione: Bendis chiude la sua run sugli Avengers nel 2012, con l’Heroic Age, non senza qualche dubbio, e al posto suo era a questo punto doveroso chiamare uno sceneggiatore capace di non far fare passi indietro al gruppo e alla testata che aveva da poco riconquistato la giusta supremazia, narrativa e commerciale. E la scelta non fu certo poco coraggiosa: a scrivere di Cap e Co. venne infatti chiamato Jonathan Hickman, che con la sua Avengers World nel 2013 portò definitivamente il gruppo nel futuro.
Hickman era reduce dal successo di critica su alcune testate minori come S.H.I.E.L.D., Secret Warriors e Shang Chi: trasferitosi poi su Fantastic Four, dove dal 570 al 588, dal 2009 al 2011, gettò le fondamenta teoriche del suo universo narrativo, un universo in continua espansione e trasversale all’eroe raccontato. Il passaggio su Avengers fu rumoroso: l’autore della Carolina del Sud non aveva di certo l’allure mainstream come Bendis, né il tocco popolare di Busiek: anzi, al contrario, le sue storie si erano fatte notare per un approccio sofisticato e quasi anti-narrativo, attorcigliandosi intorno a concetti di fisica e sottintendendo segreti e misteri che lui avrebbe portato avanti per tenere alta la curiosità, ma che richiedevano anche un’altissima soglia di attenzione. Con lui il lettore è tenuto a non abbassare mai la guardia, ed è anzi coinvolto in prima persona nella lettura: Mondo Avengers, la sua prima run del gennaio 2013, è un ribollire continuo di idee, che alla prima lettura neanche forse risaltarono agli occhi dei lettori, rivelandosi anzi a distanza di diversi anni.
Insomma, una dinamica simile a quella che aveva fatto la fortuna di Chris Claremont sugli X-Men, ma più stratificata, più densa, e molto meno abbordabile dal pubblico più distratto. A parte l’incipit che, tra le righe, prendeva in giro l’espansione incontrollata di Bendis prima di lui (“Non c’era nulla… poi ci fu tutto. E poi… corremmo verso la luce”), Mondo Avengers si distingue per mettere subito in chiaro la linea progettuale di Hickman: sceneggiature sontuose, capacità di creare plot epici e visionari, complessi a dismisura ma eccezionalmente precisi e perfettamente congegnati:
“La verità è che il mondo è in pericolo: nell’aria c’è qualcosa di oscuro e pericoloso, qualcosa di sinistro. Tutto ciò in cui crediamo sarà messo alla prova, e solo uomini e donne dalle forti convinzioni, con uno scopo ben preciso, potranno opporsi a tale ineluttabilità. Vedrete. Presto i più forti dovranno farsi avanti”
Sono le parole di Steve Rogers, aka Captain America, in Avengers vol.5 # 2, (We Were Avengers, in Italia Eravamo Vendicatori sul tpb Mondo Avengers – Avengers Marvel Now! n.1, Panini Comics). E sono parole che tre anni dopo, in Secret Wars, trovano il loro esatto compimento.
TUTTO MUORE
La run di Hickman sugli Avengers durò tre anni densissimi di avvenimenti, e ad oggi è giustamente una delle più celebrate nonché una delle migliori, sotto il profilo artistico e letterario. Jerome Opeña, Adam Kubert, Steve Epting, Valerio Schiti, Stefano Caselli, Mike Deodato, Kev Walker, Salvador Larroca, Dustin Weaver e Jim Cheung sono il parterre de roi chiamato a illustrare le labirintiche e stratificate trame di Hickman: che riallacciano tutti i fili nel crossover Secret Wars, che addirittura, come megalomania hickmaniana vuole, distrugge l’intero Marvel Universe per ricrearne un altro. Richiamandosi allo storico Secret Wars – Guerre segrete di Jim Shooter del 1984, e riprendendo temi e paesaggi dei vari crossover e scenari post apocalittici che hanno fatto la storia della Marvel, il Secret Wars di Hickman è un affresco mastodontico che chiude degnamente le sue trame, addirittura facendo poi ripartire le storie del Marvel Universe in un nuovo universo, il nono (!!!) secondo la narrazione ufficiale. Secret Wars è la dimostrazione che anche un crossover con chiarissime finalità commerciali può avere una (bella) anima, e che le storie per vendere tanto possono anche essere elucubrate, tortuose e complesse.
In tutto questo: i Vendicatori di Hickman raggiungono il massimo splendore a cui un gruppo nel nuovo secolo può aspirare.
Una miriade di personaggi riportano in auge il significato di “vendicatore una volta, vendicatore per sempre”, espandendo le trame anche al di fuori della serie regolare e anzi esondando proprio per trovare una giusta quadratura. Cuore del gruppo ovviamente sono sempre Iron Man, Capitan America e Thor, ma dietro di loro Hickman si diverte a riproporre characters storici come Ercole, Pantera Nera e Namor, che da sempre hanno spesso e volentieri sofferto di un malcelato complesso di inferiorità e che invece con lo sceneggiatore trovano ed esplorano nuove altezze drammatiche. Certo, la narrativa di Hickman ha come dimensione privilegiata lo spazio e il world building (prova ne è che il miglior crossover scritto da lui è Infinity, e che la sua Secret Wars è servita alla Marvel per ripartire da zero con un reboot che non è un reboot), ma i personaggi, pur non essendo al centro di un approfondimento vero e proprio, riescono ad esaltare nella loro magniloquenza grazie alla struttura complessiva nella quale sono incastonati, facendone parte come meccanismo essenziale ed esiziale.
Ma come ripete spesso il buon Jonathan, tutto muore e il tempo finisce: e dopo Secret Wars alla Marvel niente sembra essere più lo stesso. Neanche gli Avengers.
GLI AVENGERS SONO MORTI: LUNGA VITA AGLI AVENGERS
Dopo due titani come Bendis e Hickman, certamente le alte sfere della Marvel si saranno trovate in difficoltà per trovare un nome all’altezza dei due: specialmente considerando che nel 2013 uscì sugli schermi Avengers, il primo film dedicato al gruppo che mostrava chiaramente come l’era Marvel fosse arrivata anche al cinema.
Peccato che se Hickman aveva alzato l’asticella di quanto complesse potessero essere le storie del primo gruppo della Marvel, il film di Whedon per quanto riuscito e perfetto nel suo essere un ottimo divertissement di presentazione tralasciasse completamente l’aura tragica e l’epica del gruppo, concentrandosi sulla sua multimedialità e sulla sua popolarità, per quanto in termini alti.
Avengers si trasforma allora in All New, All Different Avengers: per marcare l’assonanza con i vari cicli editoriali, ma anche per rendere chiaro come gli Avengers di adesso erano completamente diversi da prima. Eccome.
Il roaster prevedeva l’immancabile Iron Man e la Visione per tenere un piede nel passato legato al classico: ma oltre a loro due, erano presenti le versioni politically correct dei nuovi eroi, da Lady Thor, in realtà Jane Foster, malata di cancro e degna del Mjolnir al posto dell’indegno Odinson; Kamala Khan aka Mrs. Marvel, nuovissimo idolo delle folle, ragazzina pakistana che dopo un’esposizione accidentale alle Nebbie Terrigene scopre di avere geni Inumani e conseguenti poteri; Miles Morales aka Spider-Man, il nuovissimo ragnetto di quartiere di origini ispaniche; il Captain America di Sam Wilson, ex spalla di Steve Rogers e di etnia afroamericana; Nova, il giovanissimo Sam Alexander. Una formazione che rispecchia in pieno la Marvel degli Anni Dieci, preoccupata di dare spazio a tutte le minoranze, ma allo stesso tempo desiderosa di rinnovare i propri eroi in maniera intelligente e mai scontata.
E non che Lady Thor. Miles Morales – Spider-Man e il Cap di Wilson siano personaggi da buttare, anzi. Tornando con la mente agli anni Ottanta, la stessa spinta propulsiva portò la casa editrice al cambiamento: fu allora che l’Uomo Ragno classico passò al famoso costume nero, Hulk divenne grigio, Capitan America divenne solo il Capitano con tanto di uniforme nera, Thor dovette usare una maschera e la barba perché aveva il volto deturpato. Allo stesso modo, negli Anni Dieci il martello Mjolnir era sollevato da una donna malata oncologica e il Capitan America era di colore così come Spider-Man: le loro avventure, scritte rispettivamente da Jason Aaron, Nick Spencer e Brian Bendis, erano di livello altissimo e i problemi sociali e culturali in cui affondavano le loro vicende appassionanti e mai banali.
Peccato però che durante la loro (breve) permanenza nelle file degli Avengers tutta questa loro splendida complessità non venne mai fuori: a scriverli fu chiamato Mark Waid, penna classicissima, a disegnarli alternati i bravissimi Adam Kubert e Mahmud Asrar, ma la qualità della serie rimase sempre appena sopra la sufficienza. Vuoi per l’avvento del poco riuscito crossover Civil War II, vuoi perché lo stesso Waid non ebbe neanche il tempo di approfondire trame e relazioni interpersonali, i quindici numeri appena della serie non bastarono a rendere la formazione un classico moderno.
SENZA TREGUA, E SENZA FIATO
Ormai, dopo Bendis e Hickman, e insieme allo sviluppo abnorme del MCU sugli schermi con il travolgente Avengers Infinity War / Endgame, il brand Avengers è ormai la gallina dalle uova d’oro: per questo, nel 2016 accanto ad Avengers di Waid troviamo anche Occupy Avengers di David Walker, U.S. Avengers di Al Ewing e Uncanny Avengers di Jim Zub e Gerry Duggan.
Un fiorire di testate e personaggi con andamento altalenante e discontinuo: se il serial di Waid è fin troppo classico e senza scossoni, gli U.S. Avengers di Ewing sono un piccolo gioiello, e il loro scrittore si conferma uno degli autori di profilo più alto attualmente in forza alla Marvel (non per niente adesso è sul best seller The Immortal Hulk, capolavoro assoluto), Occupy Avengers ha un ottimo concept – volutamente fortemente politico, ma che con il passare dei numeri ha avuto poca forza e poca spinta, mentre Uncanny Avengers eredita la storia del bellissimo ciclo di Remender che aveva sapientemente unito Avengers e X-Men, riuscendo persino ad unirne i concetti e gli stili narrativi alla base. Ma purtroppo né Duggan, né Zub, riescono a riprenderne il controllo.
È per questo che con un sospiro di sollievo i fan accolgono Avengers: No Surrender, miniserie (nella serie: è Avengers, vol.1, # 675/690) di sedici numeri a cadenza quindicinale scritta ad otto mani che aveva il compito di chiudere le trame delle quattro serie. No Surrender (in Italia Avengers Senza Tregua, edito da Panini Comics) è invece un pasticcio che parte bene, si svolge meglio e finisce male.
Dal punto di vista artistico, le cover di Mark Brooks introducono l’alternarsi di Pepe Larraz –stratosferico-, Kim Jacinto, Paco Medina, Mike Perkins, Sean Izaakse, Joe Bennet e Stefano Caselli. Anche la scrittura è divisa per sceneggiatori ma risente maggiormente e ovviamente di una qualità diversa per ogni capitolo: a differenza però della Secret Wars di Hickman, No Surrender non sa dare il giusto risalto alla folla di personaggi che animano le pagine, risultando una torma indistinta che non appassiona mai. E se Waid qua riesce a dare il meglio di sé nel momento in cui cattura lo spirito classico dell’epica Marvel, creando un personaggio sui generis come Voyager, alla fine Senza Tregua non sa diventare essenziale.
Inaspettatamente, meglio sarà invece il seguito ideale, No Way Home (in Italia Avengers: Senza Ritorno, miniserie di sei albi per Panini Comics): il successo di No Surrender spinge la Marvel ad affidare un’altra storia simile a Waid, Zub ed Ewing che parte da presupposti diversi, ma rimette in campo la Voyager di Waid. La storia è scorrevole e appassionante al punto giusto, ma c’è il dubbio che la stessa Marvel, scoraggiata dalle vendite, non abbia ci creduto fino in fondo, rendendo di fatto No Way Home il canto del cigno della testata storica dei Vendicatori.
UNA PER TUTTI
Nel 2020, una sola testata porta il logo Avengers in copertina.
Dopo l’ubriacatura degli Anni Dieci, tra rilanci editoriali riusciti o meno (Marvel Now! e successivi) e grandi saghe a cadenza semestrale (dopo l’Heroic Age di Bendis, si sono succedute a strettissimo giro di posta: Secret Wars, Civil War II, Axis, Inhumans vs XMen, Secret Empire), era tempo di fare punto e a capo.
Di ridare stabilità alle testate, assegnando un team artistico alla guida che durasse più di una stagione, e di eliminare gli eventi che si susseguivano incessantemente e che ogni volta stravolgevano – o dicevano di farlo… – lo status quo: ecco allora arrivare, dopo il confusionario Alonso, C. B. Cebulski, editor in chef dal 2018, che detta le linee guida della Marvel degli Anni Venti.
Che per gli Avengers significa azzerare le strabordanti testate con gruppi diversificati per ogni esigenza e tornare alla normalità con una sola Avengers: scritta da Jason Aaron e con Ed McGuinness come disegnatore regolare (con l’aiuto di Andrea Sorrentino ed altri all’occorrenza, per le scadenze), una testata blockbuster che segua la scia dei film ma che faccia allo stesso tempo storia a sé.
Ecco che allora la semplificazione narrativa arriva: Aaron, nonostante sia l’artefice di una delle saghe più belle e lunghe di Thor (quella di Lady Thor accennata sopra, durata dal 2011 al 2019), decide con gli Avengers di cambiare registro e scrivere storie dirette, senza fronzoli, che però riportino il gruppo ad essere il perno attorno al quale ruota tutto il Marvel Universe… insomma, così com’era all’inizio del Nuovo Secolo. Cambiare tutto, per non cambiare nulla.
La formazione lega allora elementi classicissimi – da She-Hulk a Thor di nuovo con la barba dell’Odinson, al Cap nuovamente biondo e caucasico – ad introduzioni dovute allo strapotere cinematografico (leggi Pantera Nera, Doctor Strange e Captain Marvel) e incursioni curiose che ancora devono dare il loro frutto – Blade e il nuovo Ghost Rider.
Aaron parte senza mezze misure: la prima run (L’Ultima Schiera) riscrive la storia di com’è nato l’Universo, per poi allargarsi sotto il mare alla ricerca del principe Namor nuovamente incazzoso fino alle fredde brughiere russe e al Dracula marvelliano. Per finire con la nuovissima versione dello Squadrone Supremo, forse la sottotrama più interessante e più apertamente politica, sotto l’influsso di uno straniante Phil Coulson.
Dopo 18 numeri è presto per dare un giudizio definitivo: fatto sta che Aaron sa mettere ordine al caos, la sua narrativa è chiara e pulita, i personaggi hanno il giusto spessore (anche se non si diletta mai in approfondimenti interpersonali), le trame si aggiungono una all’altra senza affastellarsi. Il che, visti i disordini degli ultimi anni, non è poco.
Certo è che svicola abilmente dalle vicende personali dei suoi personaggi (sulle testate private, Iron Man è attualmente Arno Stark, fratello adottivo di Tony, mentre quest’ultimo ha scoperto di essere una copia genetica dell’originale Tony Stark; Thor è appena diventato Re di Asgard ma sta combattendo contro il Nero Inverno; Capitan America è di nuovo un cane sciolto ricercato dal Governo addirittura perché accusato di aver ucciso il generale Thunderbolt Ross), riservandosi probabilmente di far svoltare le loro storie alla prossima run. Ma ha anche detto che, una volta terminato il suo incarico con Thor nel 2019, si dedicherà solo agli eroi più potenti della terra almeno fino alla fine del 2021.
Carne al fuoco ce n’è tanta, anche perché il MCU deve ancora scoprire le sue carte.
E noi restiamo in attesa.