Il terzo episodio di The Last of Us si prende una pausa dalla scena action e ci racconta la storia di due comprimari, Bill e Frank, e di come l’umanità non muore mai
È arrivato sugli schermi di Sky Atlantic, in contemporanea con il canale HBO negli Stati Uniti, il terzo episodio (in lingua originale sottotitolato in italiano) di “The Last of Us“. Terzo episodio e terzo differente regista dietro la macchina da presa. Se nei primi due episodi la regia è toccata ai due showrunner Craig Mazin e Neil Druckmann, questa terza puntata dalla durata di 1 ora e 15 minuti e dal titolo “Long Long Way” è diretta da Peter Hoar. Hoar, per chi non lo conoscesse, è un regista britannico che già si è distinto per aver diretto il primo episodio e il finale di stagione della season 1 di “The Umbrella Academy“, ossia quando valeva ancora la pena vedere la trasposizione cinematografica del fumetto di Gerard Way e Gabriel Bá.
Questo episodio conferma il trend che si è finora radicato con “The Last of Us“: ogni episodio è migliore del precedente. Se siete rimasti rapiti e affascinati dall’episodio premiere (in questo articolo la recensione) e dalla seconda puntata (in questo articolo la nostra opinione) allora non sapete cosa vi aspetta in questo terzo atto di lacerante bellezza.
Prosegue il cammino di Joel e Ellie, questa volta diretti verso la località di Lincoln dove contano di trovare il supporto di una vecchia conoscenza di Joel. Nella prima mezz’ora vediamo prendere forma e svilupparsi il rapporto tra i due: i sentimenti iniziali di paura e diffidenza pian piano svaniscono, tanto che Joel confida ad Ellie come tutto quanto ha avuto inizio. Ellie è una bambina di quattordici anni che è nata e cresciuta con la pandemia. Di fronte alle macerie di un aeroplano, la ragazza mostra tutta l’innocente meraviglia di chi non ha conosciuto il mondo prima che tutto ciò accadesse. È un passaggio toccante e non abbiamo potuto non riflettere sulla nostra realtà. Ovviamente la pandemia che abbiamo attraversato è stata (per fortuna) molto meno devastante di quella che ci viene raccontata in “The Last of Us” ma, se ci pensate bene, qualcosa (anche di piccolo) ce lo siamo perduti in questi due anni. Voi ricordate cosa eravate prima che il Covid si prendesse tutta la scena ?
Ulteriori dettagli sull’inizio della pandemia ci vengono raccontati da Joel: il cordyceps è un fungo che è mutato ed è finito in alimenti di base quali la farina e lo zucchero. La diffusione dell’infezione è stata devastante e si è sviluppata in tutta la sua potenza nell’arco di poche ore. Le Zone di Quarantena non avevano posto per tutti. Solo quelli in salute e in grado di lavorare per il sostentamento della comunità avevano il diritto di vivere. Tutti gli altri venivano trucidati e seppelliti in fosse comuni.
A questo punto parte un lungo flashback che si prende tutto il resto della puntata. Ci vengono mostrati eventi del passato di crudele cinismo. Qui facciamo la conoscenza di Bill, un trafficante che, rintanato nel bunker presente nei sotterranei della sua abitazione, riesce a sfuggire alle retate dei militari. Rimasto solo, Bill riesce a sopravvivere nel suo fortino protetto da letali misure di sicurezza costruite grazie al suo spiccato ingegno. Una dignitosa esistenza di pura solitudine che subisce uno scossone quando alla propria abitazione si presenta Frank, un affamato vagabondo che miracolosamente è riuscito a sfuggire agli infetti dopo che la sua Zone di Quarantena è caduta. Bill accoglie Frank nella sua abitazione e tra i due inizia una storia d’amore che diventa il fulcro centrale di tutta la puntata. Qui ci fermiamo con il racconto della trama perché sarebbe delittuoso darvi spoiler sulla prosieguo della puntata.
In questo episodio non vedrete agguati da parte dei clicker. Non ci sono fiotti di sangue e pistole fumanti. La scena è completamente centrata su Bill e Frank, due comprimari con una storia importante da raccontare. E questo è tutto ciò che auspicavamo di trovare in questo adattamento per la televisione dell’opera videoludica di Naughty Dog: impreziosire l’affresco che è il mondo disastrato di “The Last of Us” con storie che il videogioco ha tralasciato di raccontare. Nel videogame il personaggio di Bill è una vecchia conoscenza ma Mazin e Druckmann ne riscrivono completamente la storia sua e del compagno Frank, elevando questa trasposizione a molto più di un racconto di un uomo e una bambina che si muovono in mondo popolato di zombi. Il modo con cui Mazin, Druckmann e la sapiente regia di Peter Hoar raccontano la vita di Bill e Frank è quanto di più distante dal genere horror e action che, apparentemente, pervade tutta l’opera. Il ritmo compassato, l’attenzione ai dettagli, i lunghi silenzi e gli sguardi dei due personaggi interpretati magistralmente da Nick Offerman (nei panni di Bill e già visto in “Good Omens” e “Pam & Tommy“) e Murray Bartlett (nella parte di Frank e interprete in “The White Lotus“) ci regalano una gemma che difficilmente dimenticheremo. La colonna sonora fornisce un contributo essenziale: crediamo fortemente che “Long Long Time” di Linda Ronstadt (il titolo del brano viene parafrasato dal titolo dell’episodio) diventerà il prossimo tormentone e hit più ascoltata. E il finale ci viene accompagnato dalla carezza di “On the Nature of Daylight” di Max Richter, pezzo stra abusato nel cinema ma sempre dal forte impatto.
Abbiamo pianto al termine dell’episodio. Abbiamo pianto copiosamente e lo diciamo senza sentirci in imbarazzo. Non erano lacrime di dolore quelle che hanno solcato il nostro viso, ma di gioia. Perché la storia di Bill e Frank è un inno all’amore, una celebrazione della vita. Due anime che si incontrano e che assieme riescono a sconfiggere il cinismo che attecchisce sugli umani come i filamenti di cordyceps sugli infetti. Quella di Bill e Frank è una storia di straordinaria normalità che si sviluppa tra le macerie di un mondo finito in disgrazia. Perché l’amore e l’umanità non muoiono mai.
Neil Druckmann, dopo la pubblicazione della puntata, ha scritto su Twitter tra il serio e il faceto: “Perché piangete tutti? Questa era l’episodio lieto!“. Potreste pensare che al buon Druckmann piace prendersi gioco di noi. Noi crediamo abbia maledettamente ragione.