Martin McDonagh torna a portarci nuovamente in luoghi ai margini della società, dove i personaggi dovranno scegliere tra una monotona sicurezza e la solitudine di chi insegue un sogno: questa è la nostra recensione de Gli Spiriti dell’Isola
Dopo essersi già portato a casa 3 Golden Globe, 2 premiazioni al Festival di Venezia e 9 candidature ai prossimi Premi Oscar, dal 2 Febbraio è arrivato nelle sale italiane Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin) l’ultima fatica del regista britannico Martin McDonagh, a cinque anni dall’acclamato 3 Manifesti a Ebbing, Missouri. McDonagh torna per l’occasione a collaborare, dopo il fin troppo dimenticato In Bruges – La coscienza dell’assassino, assieme agli attori Collin Farrell e Brendan Gleeson, con il trio che ancora una volta risulta impeccabile nel tratteggiare i desideri e le angosce di persone incastrate in una vita che non sembra offrire prospettive, chiamate a decidere quali siano i valori davvero importanti e per cui vale la pena andare avanti.
Nel 1923, mentre in Irlanda infuria la Guerra Civile, la vita scorre indifferente e quasi apatica nell’immaginaria isola di Inisherin, talmente vicina alla costa che i fuochi e le esplosioni degli scontri sono perfettamente visibili. Tra gli abitanti troviamo il pastore Pàdraic (Collin Farrell) e il musicista Colm (Brendan Gleeson), legati da una lunga amicizia che viene interrotta quando quest’ultimo, senza apparente motivo, decide di troncare ogni rapporto fra i due. Pàdraic, sorpreso e frustrato, dopo aver chiesto spiegazioni all’ex amico (che in modo alquanto criptico rivela che “non gli va più a genio”) si ostinerà disperatamente a voler restaurare il loro rapporto con diversi tentativi, che finiranno alla lunga per portare tensioni sempre più forti tra i due.
Tassello fondamentale della storia è rappresentato dall’ambientazione, riconfermando l’abilità di McDonagh nel descrivere luoghi molto lontani (idealmente e geograficamente) dai grossi centri abitati, siano essi città pittoresche e poco mondane o zone rurali e di periferia. Mentre in In Bruges l’atmosfera onirica e fuori dal mondo del borgo fiammingo poteva affascinare come esasperare i personaggi, e in 3 Manifesti a Ebbing, Missouri ci vengono splendidamente descritti i rancori e i dissapori della provincia statunitense, il regista e i protagonisti ci trasportano stavolta nella loro nativa Irlanda, su un’isola che per quanto immaginaria descrive bene l’esistenza propria dei piccoli paesi non solo irlandesi ma di gran parte del mondo.
Un’esistenza che raramente riserva sorprese, dove si vedono sempre gli stessi volti, si fanno spesso le stesse cose e dove molti tendono a preferire che tutto rimanga così, temendo e rifuggendo qualsiasi evento o elemento che porti diversità, oltre a non desiderare altro che una mera sopravvivenza a scapito di diverse aspirazioni.
Proprio da questo opprimente quieto vivere ha origine la vicenda di Pàdraic e Colm, contraddistinti da diversi caratteri e opposti atteggiamenti verso questa realtà.
Il primo è una persona estremamente semplice, che ama dividere il suo tempo tra la cura dei suoi animali (in particolare l’asinella Jenny) e le serate al pub bevendo birra e chiacchierando di cose superflue. Non nutre alcuna ambizione particolare se non impegnarsi ad essere sempre gentile col prossimo, valore a cui egli da grande importanza, e la fine inaspettata di una lunga amicizia finisce per spezzare questo circolo vizioso su cui ha costruito la sua intera esistenza, gettandolo in un profondo sconforto.
Colm, al contrario, è molto raffinato e amante dell’arte, in particolare della musica sognando di comporre con il suo violino qualcosa che possa essere ricordato nel tempo. L’avanzare implacabile dell’età inizia però a spaventarlo, temendo di concludere i suoi anni in modo insulso e senza realizzare niente. Questo pensiero lo porta a dedicarsi completamente alla sua passione, tagliando così i ponti con l’amico, giudicando ormai il loro rapporto noioso e senza valore e preferendo apparire scortese e crudele nei suoi confronti, convinzione che nel corso del film continuerà a covare con determinazione, fino ad arrivare a soluzioni radicali.
Sullo sfondo della vicenda si dipanano le vicissitudini di altri due personaggi significativi: La prima è Siobhán (Kerry Condon) sorella di Pàdraic colta e appassionata di letteratura, guardata con sospetto e derisione dagli abitanti e ripetutamente frustrata dagli atteggiamenti del fratello (pur essendogli comunque molto legata), la quale aspetta solamente l’occasione giusta per cambiare vita e potersene andare da Inisherin, arrivando persino a comprendere, pur non approvando, il comportamento di Colm.
C’è infine il giovane Dominic (Berry Keoghan) apparentemente unico ragazzo dell’isola, vittima di un padre violento e oggetto dello scherno e dell’emarginazione degli altri a causa di un difetto cognitivo (trovando umanità solo da Pàdraic e, in parte, da Siobhán) come a voler simboleggiare una gioventù senza futuro, privata di ogni possibilità e che finirà per essere contaminata dall’arretratezza che la circonda quando non ad un’inevitabile e triste fine.
Gli Spiriti dell’Isola mostra senza filtri e con grande cinismo la ruvidità della periferia, lasciando a noi la scelta su cosa sia più importante: Cercare di mostrarci sempre disponibili e affabili con chi circonda, o concentrarci su noi stessi e i nostri sogni a costo di essere disprezzati o restare soli?
Gli Spiriti dell'Isola
Colin Farrell: Pádraic Súilleabháin
Brendan Gleeson: Colm Doherty
Kerry Condon: Siobhán Súilleabháin
Barry Keoghan: Dominic Kearney
Gary Lydon: Peadar Kearney