Con questo episodio, la nostra rubrica Wrestling Vintage vuole rendere omaggio a uno dei lottatori più folli e simpatici degli anni 80 e 90, ennesima vittima del Coronavirus. Signore e signori, questa è la vera storia di Kamala, colui che Dan Peterson chiamava “il Panzone dell’Uganda”
Neanche il mondo del wrestling è stato esonerato dal pagare un tributo di vite umane al Coronavirus, flagello dei nostri tempi. Il mese scorso, esattamente il 9 agosto, se n’è andato Kamala, il “panzone dell’Uganda”, come lo chiamava Dan Peterson nelle sue telecronache. Uno dei personaggi più famosi del wrestling degli anni Ottanta e Novanta, che i quarantenni come me ricordano con particolare affetto.
Nel 1993, per esempio, per me e il mio amico Francesco era diventato un vero e proprio tormentone quello che, nell’incessante opera di umanizzazione di questo feroce cannibale, spesso maltrattato dai suoi precedenti rappresentati, il Reverendo Slick, suo nuovo manager, ripeteva al buon Kamala. E proprio negli stessi giorni in cui l’opera e le cure del religioso facevano breccia nel cuore dell’uomo venuto dalla giungla, portandolo sulla retta via dei “buoni” del wrestling, ricordo che io e Francesco ci ripetevamo in continuazione: “You. Are. A. Man!”. Esattamente come lo scandivano i fan nei palazzetti americani dove lottava il novello beniamino del pubblico.
Nella vita reale, Kamala si chiamava James Arthur Harris (ed è curiosa la quasi omonimia con l’attuale candidata democratica alla vicepresidenza degli Stati Uniti, Kamala Harris). Nonostante nella storyline venisse presentato come proveniente dalla foresta ugandese, molto più prosaicamente, era nato e cresciuto in Mississippi. Di fatto, i primi “territori” di wrestling ad essere terrorizzati dal selvaggio gigante, agli inizi degli anni Ottanta, sono Memphis, il Mid-South e Dallas, dove Kamala combatte cruenti match con star del calibro di Jerry “The King” Lawler, Bruiser Brody e i fratelli Von Erich.
Nel 1984 – ça va sans dire – viene notato dalla World Wrestling Federation dove lotta in più occasioni con Andre The Giant in veri e propri scontri fra colossi. Il suo personaggio, con quella stazza e quel look da selvaggio pronto a fare carne da macello degli avversari, ha un grande successo e, per questo, Kamala viene richiesto da tutte le più importanti federazioni dell’epoca: oltre alla già citata WWF, la American Wrestling Association, NWA/Jim Crockett Promotions (la futura WCW), persino il Giappone.
Il gigante di colore sembra inarrestabile. Ed arriva la sua grande occasione. Nel 1986, Kamala inizia un sodalizio con Kim Chee, una sorta di cacciatore di safari che gli fa da manager (e più stereotipo di così…), ed ottiene una serie di opportunità per contendere ad Hulk Hogan il titolo del mondo. È senza dubbio il picco della sua carriera professionistica. I tentativi di Harris, però, vengono puntualmente respinti dall’Hulkster che, nei mesi della loro rivalità, riesce sempre a mantenere stretta alla vita la propria cintura.
Memore delle battaglie di un tempo, subito dopo aver appreso la notizia, Hogan ha affidato ai social un sentito tributo per il vecchio rivale:
Sono veramente dispiaciuto per la morte di Kamala. La sua passione per intrattenere il pubblico non era seconda a quella di nessuno. Il mio pensiero e le mie preghiere per la sua famiglia, i suoi amici e i suoi fan, tanto amore. Riposa in pace.
Dopo aver lasciato la WWF una prima volta nel 1987 ed aver continuato a lottare e spaventare i fan in giro per Stati Uniti, Messico e ancora Giappone, Kamala fa ritorno alla “base” nel 1992. I cinque anni di assenza vengono spiegati con il momentaneo ritorno del selvaggio nella giungla della natia Uganda. E vi assicuro che io e Francesco non avevamo alcun dubbio sulla veridicità di questa versione. Ma oggi, nell’era di Internet, sappiamo che, in realtà, il povero Harris era andato via perché semplicemente scontento di quanto poco guadagnasse alla corte di McMahon (la cui tirchieria, a volte ai limiti dello sfruttamento, è ormai universalmente riconosciuta).
Al suo ritorno, il gigante ugandese è nuovamente accompagnato da Kim Chee. Ma al cacciatore adesso si affianca anche un losco personaggio, un certo Harvey Wippleman, uno a metà fra i faccendieri con le mani in pasta dappertutto e quei subdoli avvocaticchi di periferia i cui clienti, indossando il collarino e lamentandosi del marciapiede scivoloso, fanno causa allo Stato sperando di fare soldi facili.
La rivalità più importante di questa seconda parte della carriera in WWF di Kamala è quella con The Undertaker. Nel tentativo di abbattere il becchino, il gigante dell’Uganda lo affronta in alcune epiche battaglie. In particolar modo, a Survivor Series 1992, i due sono protagonisti del primo Casket Match (o Coffin Match, come veniva chiamato allora), cioè l’incontro in cui vince chi chiude il proprio avversario nella bara. Oggi ci sembra qualcosa di visto e rivisto, addirittura un po’ naif, data la nostra maturità (ehm…), ma ricordo che l’annuncio, ai tempi, mi sembrò pazzesco. Era proprio una cosa da film horror.
Purtroppo per lui, neanche Kamala è in grado di sconfiggere l’Undertaker e il buon vecchio “panzone” finisce nella cassa da morto che il deadman alla fine sigilla pure coi chiodi. Come se non bastasse, la sconfitta provoca la rabbia dei suoi due rappresentanti che, per sfogare le proprie frustrazioni, nelle settimane seguenti cominciano a maltrattare il povero gigante. Per fortuna, come detto, è a questo punto della storia che compare il Reverendo Slick, il quale prende Kamala sotto la propria ala protettrice, lo affranca dai suoi aguzzini e comincia a trattarlo da essere umano, rendendolo consapevole di se stesso.
Purtroppo, sul ring le cose non migliorano affatto e Kamala continua a perdere. Ma l’ultima parte della sua carriera e gli sketch fra lui e Slick vengono comunque ricordati dagli appassionati come, forse, l’epoca più simpatica e leggera del personaggio.
Nel 2011 e nel 2012, quando ormai si è ritirato da tanti anni dal mondo del wrestling, ad Harris vengono amputate, rispettivamente, prima la gamba sinistra e poi quella destra a causa di complicazioni legate al diabete da cui era affetto da tempo. Nel 2017, invece, rischia di morire e subisce un intervento d’urgenza al cuore e ai polmoni. L’ho rivisto in un servizio di un tg americano girato subito dopo il suo miracoloso recupero. Senza gambe, su quella sedia a rotelle, per niente spaventoso come un tempo. Ma comunque non abbattuto. Sorridente e, soprattutto, positivo come pochi.
Proprio il Kamala che, negli ultimi anni di carriera, era diventato uno dei nostri preferiti.