Con un’aria irriverente e pronta a sfatare qualche tabù, Bonding arriva su Netflix per parlarci del mondo del BDSM
Comicità, pratiche sessuali e problemi relazionali sono i tre elementi che ci presentano Bonding, la nuova serie Netflix approdata sulla piattaforma lo scorso 24 aprile. Sulla scia delle altre produzioni originali degli ultimi tempi, Bonding cerca di unire in un solo percorso i drammi in stile The End of the F****ing World e le serie adolescenziali con uno scopo più educativo come Sex Education, non riuscendo però a creare qualcosa di ugualmente innovativo.
Partendo dalla storia di Tiffany (Zoe Levin), ragazza universitaria di New York che vive in equilibrio tra la sua vita da studentessa e il suo lavoro da dominatrice, e di Pete (Brendan Scannel), timido ragazzo omosessuale e aspirante comico stand up, fin dai primi episodi le serie punta ad esorcizzare la visione perversa delle pratiche BDSM mostrandone piuttosto il lato naturale e creando situazioni grottesche ma positivamente comiche. Il corso di studi in psichiatria frequentato da Tiffany offre uno spunto di riflessione sull’argomento da un punto di vista psicologico e per un attimo riusciamo ad andare un po’ più in profondità, parlando di negazione, elaborazione dei traumi e repressione.
Ma proprio mentre sembra premere l’acceleratore, abbiamo l’impressione che la serie venga bruscamente frenata. Bonding, che, partendo già dal titolo, si diverte a sfruttare il doppio senso del “legare”, indicando la pratica del bondage ma anche lo strettissimo legame tra i due protagonisti, episodio per episodio perde la carica e finisce per legare sé stessa. Seppur partendo col piede giusto, la sensazione degli episodi conclusivi è quella di costrizione, a partire dalla prevedibilità dei personaggi fino ad una sceneggiatura che si fa abbastanza debole. Gli stereotipi si rivelano purtroppo dietro l’angolo, su tutti vediamo Tiff cadere nel cliché della ragazza che ha seguito un percorso “estremo” a causa di un passato problematico, e portano la serie nella direzione opposta a quella iniziale. Lo scopo a questo punto sembra più quello di poter raggiungere ogni tipo di pubblico, senza creare imbarazzo o rischiare di avere un impatto troppo forte.
Di certo non si presenta come qualcosa da prendere troppo sul serio, il ritmo è da subito leggero e incalzante e gli episodi, solo sette, hanno una durata media di 15 minuti. I personaggi ci incuriosiscono, come anche l’intreccio delle loro storie, e il binge watching è così facile da essere quasi inevitabile. Eppure, forse per colpa dell’inevitabile paragone con le serie “gemelle” sopra citate, ci aspettavamo qualcosa in più. Un qualcosa che, in ogni caso, speriamo e non escludiamo di trovare in una seconda stagione.
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