Qualche anno fa, andai con le amiche a un concerto che Cristina D’Avena tenne a Roma. Fu poi la prima di molte a seguire. Con un’euforia più da vigilia di Natale che da live, stringevo il mio biglietto in mano all’entrata dell’Atlantico di Roma, cercando di ricordare con le altre, quante fossero le sigle dei Puffi (che sono peggio dei sette nani, ne scordi sempre qualcuna).
Appena arrivata all’entrata, fui assalita dall’incredulità vera e propria. Una fiumana impressionante di persone, tanto da non vedere immediatamente il palco, che aveva negli occhi la mia stessa eccitazione. Dopo anni passati a guardare cartoni animati in tv, finalmente potevo vedere in carne e ossa lei, la voce che Fininvest/Mediaset sfumava barbaramente al secondo ritornello, un suono familiare e rassicurante, colei che sapeva rendere credibile anche una parola come Parimpampum.
Sul palco stava per salire Cristina D’Avena.
Quarantenni con gli anfibi e la t-shirt di Holly e Benji, trentenni che parlavano dei tempi di Bim Bum Bam cercando di ricordare come s’intitolasse il cartone con la foca (Sibert, così si chiamava) e così a scendere sino ai bimbetti nel passeggino. Generazioni giunte tutte lì per rivivere le merende a pane e nutella, i compiti fatti in cucina di pomeriggio abbassando il volume della tv, le litigate con le amiche per chi fosse Sailor Moon durante i teatrini improvvisati invece di studiare.
Prima udii la sua voce e poi la vidi. In un vestito da vera star come Jem, esplose come una granata cantando la sigla di Robin Hood e davvero, non capii più nulla fino alla fine del concerto.
Cristina D’Avena non è semplicemente una brillante interprete di sigle, è un mito vero e proprio.
Oltre sette milioni di copie vendute, date sold out in tutta Italia, ha condotto, recitato, doppiato. È entrata nelle case di tutti gli italiani e non se n’è mai andata. E di questo successo che non accenna a finire, siamo proprio noi gli artefici. La generazione di nostalgici, arpionata a quello che ci ha reso ciò che siamo. Divisi su tutto tranne quando si parla di cartoni animati. Quelli che anche oggi, se beccano per caso le repliche di Occhi di Gatto in televisione, sicuramente non cambiano canale.
Cristina questo lo sa e quando andiamo a un suo concerto, non risparmia la voce cantandoci tutto il repertorio. Lei ha compreso da molto tempo che farlo ci rende felici e per questo motivo, non si ferma mai prima di vedere i suoi fan contenti e sfiniti.
Le scalette le conoscono tutti, e la sensazione che ti rimane addosso è quella di non voler mai andare via perché quel rito collettivo di cantare tutti insieme Una spada per Lady Oscar è veramente emozionante.
Ho visto ragazze sgolarsi, bambini guardare increduli i genitori che ondeggiano le braccia sulle note di Siamo fatti così; ragazzi bofonchiare sotto la barba Piccoli Problemi di Cuore per non farsi vedere dagli altri.
Trent’anni e anche più di successi, una mitizzazione in ascesa. Più noi cresciamo e più ci manca d’altronde. Su di lei il tempo sembra non essere trascorso, è la prima a divertirsi e questo fa sicuramente la differenza. È affetto reciproco quello che si percepisce, probabilmente perché le arriva, con tutta la voce che abbiamo, l’entusiasmo di esserci, il legame che abbiamo creato con lei in tutti questi anni anche ora che siamo cresciuti. Lei ci fa sentire ancora dei bambini, e non ci sono applausi composti quando termina una canzone ma voglia di giocare con le amiche che sono venute con noi, intese fulminee con chi ci sta accanto, anche se non lo conosciamo per tutte le volte che ci siamo sbucciati un ginocchio sentendoci Mila sotto a una rete di pallavolo. C’è quell’aprire i cassetti dimenticati della memoria quando intona Batman e subito ricordiamo le immagini della sigla.
Cristina D’Avena è tutto questo e non possiamo fare a meno di adorarla.
(Ancora non abbiamo capito quante siano le sigle dei Puffi, ma ci stiamo lavorando).