Ripercorriamo la vita della prima super-famiglia Marvel: dall’alba dei Fantastici Quattro, fino ad arrivare ai giorni nostri, ecco la straordinaria storia editoriale di Reed, Sue, Johnny e Ben
La prima famiglia della Marvel, i Fantastici Quattro, sono il primo serial moderno pubblicato dalla casa editrice newyorkese: personaggi tra i più iconici e riconoscibili, sono stati ideati da Stan Lee nel 1961 ricalcando grosso modo i rivali Challengers Of Unknow della Distinta Concorrenza, affrontando di petto la sua geniale intuizione non tanto sui supereroi con superproblemi (di quella sarà portabandiera lo Spider-Man che da lì a poco avrebbe debuttato nelle edicole con Steve Dikto), quanto sul traslare l’epica supereroistica in una narrazione dal contesto realistico, in città reali, con famiglie reali e rapporti interpersonali reali.
FF # 1/125: STAN LEE E JACK KIRBY, ‘NUFF SAID
In questo modo, nacquero 125 memorabili albi che posero le basi dell’Universo Marvel per come oggi lo conosciamo, e per come ancora oggi dopo 60 anni appare ricco e interessante, tanto da rivitalizzare persino i pretenziosissimi schermi cinematografici di tutto il mondo.
Certo, il merito va diviso equamente tra le idee rivoluzionarie e brillanti di Lee e le tavole, affascinanti, incredibili per l’epoca, di Jack -The King – Kirby: disegni con una potenza inaudita, layout impensabili, sequenze dal taglio cinematografico, invenzioni che ancora oggi fanno scuola, uno stile che ha creato un modo di sentire e leggere.
In quei 125 numeri (ristampati recentemente nella meritoria e necessaria collana Super Eroi Classic della Gazzetta in collaborazione con Panini) sono nati Dottor Destino, Galactus, Kang (prossimo villain, a quanto pare, nella fase Quattro del MCU) Pantera Nera, Silver Surfer, gli Inumani, e tanto basti a definirne l’eterna modernità.
Fantastic Four è stato realmente, per quasi dieci anni, il più grande fumetto del mondo (the world’s greatest comic magazine!, come ha recitato per decenni lo strillo sul logo in copertina), dal quale si diramavano le trame più importanti attraverso il racconto delle traversie familiari di Reed Richards, sposato con Susan Storm, sorella di Johnny Storm, amico di Ben Grimm.
Personalità strabordanti dalla pagina, che s’impensierivano per una gravidanza, piangevano per un cuore infranto, facevano scherzi tra di loro e la mattina appena alzati facevano colazione con latte e caffè.
Ma come tutte le cose belle, doveva finire anche questa: dicendo addio al Bullpen Bulletins, il Sorridente abbandonò definitivamente con il 125 preso dai mille impegni sopravvenuti per diventare l’ “uomo immagine” della Marvel, al centro dei molteplici progetti multimediali.
FF #126/216: RISUCCHIATI IN UN BUCO NERO
Raccogliere l’eredità di Stan Lee era un’impresa da far tremare i polsi: e la raccolse il buon Roy Thomas, già autore di un lunghissimo e seminale ciclo su Avengers (addirittura dal 36 al 104), e apparentemente portato per gli sviluppi su un gruppo di personaggi.
Ma dopo un periodo di rodaggio, fu chiaro come lo stile di Thomas non fosse adatto alla Prima Famiglia: che aveva/ha avuto l’onore e l’onere di essere marchiata in maniera indelebile dallo stile del suo creatore, che aveva dato un’impronta così precisa alle loro avventure che ancora oggi è particolarmente difficile affrontare le pagine del Quartetto senza rischiare di deragliare.
Difatti, Thomas era fin troppo supereroistico per dare una continuità narrativa ai quattro eroi e le sue avventure risultarono – almeno all’inizio – un ibrido poco riuscito, dove Susan, Reed, Jhonny e Ben erano solo macchiette in una trama a loro estranea, pur riprendendo villain classici.
Certo, sul lungo percorso va però detto che Thomas è stato forse il migliore, anzi il più identitario di quelli che sono seguiti: battaglie, un turbinio di personaggi, creazioni anche azzeccate (come la donna guerriera Thundra), in nome di una meraviglia superomistica senza fine. In seguito, arrivarono Gerry Conway (#133/152), di nuovo Thomas fino al # 181, brevemente Len Wein dal # 184 al # 195, e infine Marv Wolfman dal # 197 al #216. E se si eccettuano i disegni di un giovanissimo e ancora poco sperimentale Bill Sienkiewicz, neofita della Marvel e ispiratissimo da Neal Adams, fino al numero 232, ovvero l’arrivo di Sua Maestà John Byrne.
RITORNO ALLE ORIGINI: I CINQUE ANNI DI JOHN BYRNE (FF # 232/293)
John Byrne è stato, in tutti gli anni Ottanta e per buona parte dei Novanta, uno degli autori – completi – più importanti e innovativi del parco testate non solo Marvel. Prima del quartetto, aveva lavorato con Chris Claremont su Uncanny X-Men, contribuendo a trasformare una testata (partita in sordina e poi diventata un piccolo successo) in uno dei best seller assoluti del mondo a fumetti mainstream, lanciandola in un empireo dal quale non sarebbe più uscita.
Byrne in origine avrebbe dovuto solo scrivere FF, su disegni di Sienkiewicz: ma quando l’artista di origini polacche fu chiamato su Moon Knight, il buon John si trovò a dover firmare tutto l’albo.
Iniziando con un botto: Back To The Basics, il #232, primo numero della gestione completa dello scrittore canadese, fu un vero e proprio ritorno alle origini. Narrative prima di tutto, perché intelligentemente Byrne recuperò uno degli elementi fondamentali della trionfale gestione Lee: i Fantastici Quattro sono una famiglia, prima che esploratori spaziali, e prima che supereroi.
Per questo, fu recuperata la struttura nella quale preponderante era l’aspetto psicologico e umanistico dei personaggi: Byrne effettua un recupero che è però anche una rivoluzione. Perché gli stilemi degli anni ’60, aggiornati alla nuova prospettiva di approfondimento e scrittura degli anni ’80 (parliamo dell’epoca in cui i supereroi erano in pieno revisionismo, tra cose monumentali come il Dark Knight Returns di Frank Miller e il Watchmen di Alan Moore), diedero come risultato una gestione brillante con personaggi che diventavano persone.
E poi un cast di comprimari degno di questo nome, un nuovo asset personale a Susan Storm, finalmente donna libera ed emancipata, relazioni interpersonali che mutuavano dalla gestione Claremont sui mutanti uno stile da soap opera affascinante, pervasivo e incredibilmente umano: insomma, un piccolo grande cult che ancora oggi viene ricordato come uno dei momenti editoriali più alti degli FQ, uno dei cicli più belli del fumetto pop, una pietra miliare per la Marvel.
Tutto questo senza dire che è con Byrne che i quattro affrontano le prime vere evoluzioni di continuity, linee narrative che segnano il solco per tutti gli eventi negli anni a venire: Susan affronta un aborto, la Cosa viene sostituita da She-Hulk, viene fuori dalle nebbie del passato il papà di Reed, Nathaniel Richards, e il Dottor Destino inizia quel cammino di redenzione (tanto simile a quello di Magneto) che lo porterà ad essere non solo un supercattivo.
SEMBRA PIÙ BELLO SE QUELLO CHE SEGUE È BRUTTO (?) (# 304/417)
«Il mio lavoro è stato elevato a un’opera che non rispetta il suo reale valore – ha dichiarato Byrne – Certo, era quasi tutta roba buona, e certi numeri flirtavano con la grandezza, ma più che altro agisce il vecchio scenario Tiberio/Caligola: sembra così bello perché quello che fu pubblicato dopo era robaccia»: in un afflato di rara modestia per lui, Byrne ridimensiona il valore della sua run, terminata con il # 294, confrontandola a tutto quello che è venuto dopo.
Stesso identico discorso del dopo Lee: quasi tre anni con Steve Englehart (#304/333) devono passare – anche qua con uno scrittore che, ugualmente al post-Lee di Thomas, pensa bene di recuperare il lato prettamente supereroistico, con qualche episodio buono per caratterizzazione ma molte cadute sul lungo percorso – prima di arrivare al #337, con il quale scaramanticamente Walt Simonson prende le redini della testata alla stessa numerazione con la quale aveva iniziato l’epica corsa con The Mighty Thor.
Simonson rimarrà per poco tempo, fino al 354, giusto il tempo per una gestione – prevedibilmente – lontana anni luce da quella felice sul Dio del Tuono, ma allo stesso tempo, finalmente, che non cerca di scimmiottare quanto di buono c’è stato in passato (Stan Lee e John Byrne, quindi): episodi e trame caciarone che sfociano in un team provvisorio composto da Hulk, Ghost Rider, Wolverine e Spider-Man (ça va sans dire) per storie anche avanguardistiche per ritmo, trovate e suggestioni. Ma troppo lontane dal nucleo emotivo dei protagonisti.
Simonson comunque traghetta la testata fino a colui che la scriverà poi per cinque anni, tra alti e bassi, pregiudizi e sottovalutazioni: Tom de Falco.
Va allora detto immediatamente: il diavolo non è così brutto come lo si disegna.
Denigrato fino allo sfinimento mentre la run era in corso, sottovalutato subito dopo, De Falco è stato anche curatore editoriale della Marvel, ma quello che lo ha sempre contraddistinto è stata una conoscenza profonda del Marvel Universe unita ad un amore sconfinato per l’essenza di quell’universo fumettistico (la meraviglia, il colpo di scena, la continuity).
Caratteristiche che riversa negli albi dal 356 al 417, pieni zeppi di colpi di scena, personaggi, comprimari, svolte impreviste, ritmi da cardiopalma con il quale la testata tiene sempre altissima l’attenzione del pubblico, che gradisce.
Certo, l’approfondimento latita e quando c’è è basico: ma questo non dev’essere necessariamente un difetto. Perché non è legge che un fumetto per essere bello deve essere psicologicamente accurato, perché non è obbligatorio essere fini cesellatori di trame per poter offrire un prodotto affascinante, appagante, cosa che Fantastic Four scritto da De Falco, è.
Con una propria impronta, una propria identità anche artistica (Paul Ryan, sodale di De Falco, non è un visionario ma neanche un banale mestierante), una propria fisionomia e continuity che sarebbe anzi stata portata avanti se a metà anni Novanta la Marvel non avrebbe rischiato la bancarotta, finendo ad essere obbligata ad “appaltare” le sue testate più deboli agli studi di Jim Lee e Rob Liefeld, freschi di successi impensabili grazie ai loro passaggi sui mutanti (X-Men per il primo, X-Force per il secondo).
Ma se con De Falco il diavolo non è brutto come lo si dipinge, con Jim Lee, chiamato a rivitalizzare FF, non è tutto oro quello che luccica.
IMMAGINA CHE (# 1/12, seconda serie; 1/5, terza serie)
Onslaught è stato il crossover di metà anni Novanta che ha stravolto il parco testate Marvel.
Se L’Era di Apocalisse aveva fatto chiudere per quattro mesi le vendutissime testate mutanti, Onslaught (con concept proveniente sempre dalle linee narrative degli albi X) mette la parola fine a Fantastic Four, Avengers, Captain America, Iron Man e Thor. Che però riaprono subito dopo – eccezion fatta per THOR, rimpiazzato da Journey Into Mistery… ma questa è un’altra storia – con i relativi protagonisti in un nuovo universo “tascabile”, creato proprio dal potentissimo figlio di Reed e Sue, Franklyn Richards: un universo dove gli eroi sono gli stessi, ma riprendono la loro esistenza dall’inizio, con nuove origini e dimentichi di quanto accaduto nei 30 anni precedenti.
Al Fantastici Quattro tocca Jim Lee, enfant prodige, il disegnatore che aveva rinnovato le grandezze degli Uomini X insieme all’eterno Claremont, e che nelle previsioni avrebbe portato il quartetto nel Nuovo Millennio. Ma così non è stato, almeno non come si voleva che fosse.
I Fantastici Quattro scritti da Jim Lee e Brandon Choi e disegnati dallo stesso Lee sono fin da subito sfiatati: programmaticamente, Fantastic Four: Heroes Reborn (il titolo della testata che riparte dal n.1) ricalca le avventure del gruppo originario, attualizzandole e riproponendole per un pubblico giovane.
Ma gli FQ di Lee sono senza fiato, privi di vitalità, senza mordente, con testi che addirittura spengono anche le matite, bellissime ovviamente, dell’artista coreano. Prese in considerazioni le critiche, la Marvel pensa di correre ai ripari: e il ciclo successivo, Heroes Return, che chiude la nuova numerazione al #13 ripartendo da un altro # 1, e che riporta gli eroi classici nel “giusto” universo, viene affidato a Scott Lobdell per i testi e ad Alan Davis per testi e disegni.
Gestione brevissima, che neanche fa in tempo ad ingranare, perché col # 6 arriva nientepopodimeno che Chris Claremont.
CLASSICO O MODERNO? (# 6/70, terza serie)
Questo nuovo, ennesimo rilancio dei FQ dura quasi tre anni, con X-Chris al timone fino al #40 e con le matite di un Salvador Larroca allora in piena crescita. E ancora oggi, a distanza di quasi 20 anni, il giudizio rimane sospeso. Perché la classe di Claremont e la sua sapienza nel tessere trame complesse e barocche sono fuori discussione: il problema è quanto lo scrittore sia adatto al format del quartetto.
È vero che non ci sono cattivi personaggi ma solo cattive storie. Ed è vero che ogni autore deve lasciare la sua impronta in quello che scrive, altrimenti non sarebbe un “autore”.
Ma è pur vero che i personaggi della Marvel Comics hanno vita lunga e hanno avuto la fortuna che hanno avuto perché non sono semplicemente personaggi di cui scrivere, ma dei tipi ben definiti, delle persone di carta con una propria profonda identità.
È questo il motivo per cui occorre prestare attenzione a quale personaggio si scrive, osservandone il background senza però ossequiarlo come un totem immutabile: la Marvel stessa nel tempo ci ha abituato a cambi drastici (basti pensare alle rivoluzioni di Hulk, ai cambi di Thor, al valzer dei sentimenti e dei personaggi tra gli X-Men), che hanno cambiato prospettiva dalla quale guardare ai suoi eroi.
Tornando perciò ai Fantastici Quattro: sono una famiglia, e questo comporta una complessa rete di trame interpersonali e un cast definito e nutrito; ma sono anche dei supereroi, necessitando quindi di plot a lungo respiro che mettano quindi in luce i topoi del genere.
Come tanti altri, dunque, la traccia è da una parte prestabilita, dall’altra tanto fluida da permetterne le varie declinazioni.
È per questo che la run di Claremont, per quanto buona, non è da annoverare tra le migliori: lo stile di scrittura ricalca (com’era prevedibile) quello usato sui mutanti, mutuandone però anche personaggi e triangolazioni. E se in tanti hanno commesso l’errore di concentrarsi fin troppo sulla parte supereroistica, Chris compie lo sbaglio opposto, levando il “fantastico” da Fantastici Quattro e inserendo nelle trame fin troppi mutanti, con l’intenzione – sfumata, poi – di far diventare Kitty Pryde un membro del gruppo in blu.
Certo è che l’amore di X-Chris per la continuità si vede nella creazione, felice, di due personaggi che in futuro saranno indispensabili nelle storie, arricchendo il cast della serie: Alissa Moy, ex-fidanzata di Reed, e soprattutto Valeria Richards, secondogenita della coppia.
La serie inaugurata con il nuovo #1 di Lobdell va avanti fino al 70, con una staffetta fra Carlos Pacheco, Karl Kesel e Mark Waid. Che resterà sul quartetto anche quando la numerazione ritorna alla “vecchia” serie, festeggiando il 500° numero.
NUOVI ORIZZONTI (# 500/554, quarta serie)
Mark Waid sembra finalmente la quadratura del cerchio: apprezzatissimo dai fan, riesce a bilanciare vecchio e nuovo, classico e moderno, ridando freschezza ai personaggi con un continuo rimando alla mitologia della Silver Age. Insieme a Mike Wieringo, con cui aveva dato vita ad una monumentale run su Flash della DC, Waid recupera il sense of wonder e mantiene intatte le dinamiche del passato, bilanciando l’azione con storie urbane e perfettamente miscelate al lato familiare.
Ma se i fan sono in sollucchero, i piani alti della Marvel non gradiscono l’impianto raffinato ed intellettuale di Waid, che alle richieste di abbassare il target rifiuta e viene sostituito da Roberto Aguirre-Sacasa, con matite di Steve McNiven. Senonché, dopo una manciata di numeri, Waid ci ripensa e torna sul mensile, mentre Aguirre-Sacasa e McNiven, autori di un quartetto insolitamente intimista, vengono dirottati su una testata gemella, nella linea Marvel Knights, dal titolo 4.
Dopo questo veloce turnover, che però frutta agli eroi avventure di nuovo all’altezza equamente divise tra mainstream (ammiraglia, Fantastic Four) e lirismo (4), e dopo un passaggio veloce di Straczinski – molto buono – e MdDuffie –mediocre-, ecco arrivare le star. Perché dal 554 l’albo viene curato da Mark Millar ai disegni e Brian Hitch ai disegni.
IL NUOVO MONDO (#554/567)
Millar e Hitch erano reduci dal successo senza precedenti della testata Ultimates, gli Avengers della terra parallela della linea Ultimate: logico aspettarsi grandissime cose da loro su questa testata storica che faticava ad ingranare e a trovare un team creativo stabile che accontentasse il pubblico, la critica e la Marvel stessa.
E senza dubbio Millar ci riesce. A modo suo.
Rivoluziona il concetto stesso di fantascienza, portando le esplorazioni dei quattro e le minacce ad un livello superiore; e rivoluziona la loro nemesi storica per eccellenza, il Dottor Destino, affidandogli un nuovissimo background inedito. Il suo ciclo è diviso in due parti, la prima (I Più Grandi Del Mondo) è un intreccio geniale che sembra pazzesco a raccontarlo, ma alla fine quadra alla perfezione; il secondo (Il Maestro Di Destino) è quello che sembra ad oggi uno scontro inquietante e definitivo tra le due fazioni. Millar gestisce egregiamente i viaggi nel tempo, basilari per ogni avventura del team che si rispetti, unendolo a concetti di fisica quantistica e progettazioni sci-fi che in altre mani sarebbero risultate ridicole e inconsistenti: con uno sguardo ai personaggi che è quanto di più sincero, sentito, umano e appassionato possa essere mai stato fatto su FF.
Resta da vedere ancora oggi perché in tanti si siano accaniti su questa run, probabilmente una delle migliori subito dopo Stan Lee e John Byrne, e di certo una di quelle che ha saputo dare un’occhiata ai personaggi personalissima eppure mai in contrasto con la loro storia, moderna a coraggiosa, al pari di tanta roba fantascientifica più blasonata.
E resta da capire anche per quale motivo, nonostante alla gestione Millar sia succeduta un’altrettanto geniale come quella di Jonathan Hickman, qualcuno all’epoca abbia continuato a parlare di testata in discesa.
REINVENTARE UN EROE: LA STRADA PER LA FINE (#570/611, 1/3 FF, quinta serie)
Per eliminare ogni dubbio, la run di Jonathan Hickman sui Fantastici Quattro, per ambizioni, riuscita, progettazione, è una delle cose concettualmente più enormi mai prodotte dalla Marvel.
Un fumetto di fantascienza proiettato nel futuro, con un’architettura alla base maniacale e congegnata alla perfezione, un meccanismo ad orologeria incredibilmente adeguato, sempre con radici old-school: sono queste le cose che vengono in mente leggendo FF dal #570 al 611.
Forse oggi non si è più abituati al concetto di “respiro della storia”: nella stessa Casa delle Idee, piano piano si è fatta prassi un uso smodato di run più o meno brevi da racchiudere in un tpb spendibile nelle fumetterie e nelle librerie, dimenticando la lezione dei grandissimi del passato, dai nominati John Byrne e Chris Claremont, ma come anche Peter David e, arrivando al punto, Jonathan Hickman. È proprio in questo che l’attuale scrittore degli X-Men è uno stupefacente concentrato di classico e moderno: per quel suo recuperare storie a lunghissima gittata, ma programmate fin dall’inizio per nascere, svilupparsi e finire in un predeterminato lasso di tempo, innestandovi però concetti estremamente moderni, idee che partono da un ricchissimo umanesimo per finire nello spazio più profondo. Insomma, quasi un Elon Musk del fumetto contemporaneo. In un certo senso, nel 2009 è stato anticipatore e promotore di un “ritorno ad un passato futuro”, spingendo cioè le alte sfere ad incentivare (nuovamente) lunghi cicli di storie che potessero coinvolgere il lettore non tanto in mille piccole belle storie, ma un’unica storia grandiosa divisa in mille albi.
In questo modo, ogni albo, ogni vignetta, ogni balloon ha una sua precisa e fondamentale funzione nell’economia della macrostoria che si sta raccontando: non è un caso quindi se TUTTE le avventure scritte per la Marvel da Hickman siano collegate da un fil rouge comprensibile solo a lettura ultimata. Dai suoi esordi con Secret Warriors all’immaginifico S.H.I.E.L.D., dai Fantastic Four ai successivi FF e ancora con Avengers, Infinity fino a House of X, Hickman racconta una sola storia con un preciso obiettivo (Secret Wars) ma con infinite declinazioni, a seconda dell’eroe di cui decide di raccontare le gesta.
Fantastic Four, in questo senso, è uno dei segmenti più imponenti e importanti: quasi intellegibile se non si conosce l’intreccio generale, ed è anche un fumetto d’evasione nella sua forma più nobile e raffinata. Intelligente, complesso, stimolante, in perenne bilico fra dramma e umorismo, ricalibrato su scala enorme, ma con un nucleo ben fermo in testa e nella penna, ovvero i personaggi e il calore che trasmettono. Non per niente, la prima parte della run verte sul concetto di paternità, sulla famiglia e sul peso delle proprie scelte all’interno dell’istituzione, cesellando tutti i personaggi con una profondità umana colma di amore.
Se Secret Wars, il crossover creato dallo scrittore che esonda le pagine del quartetto e dilaga in tutte le altre, è un punto di arrivo narrativo per l’Universo Marvel in generale, e dal quale poi partiranno altre nuove trame, per arrivarci Hickman ha trasformato la prima famiglia in una famiglia disfunzionale, uccidendone un membro e sostituendo poi gli altri con nuovi e vecchi personaggi tirati fuori dagli angoli più nascosti della Marvel, cambiando addirittura il nome della testata da Fantastic Four a FF (che sta sia per Fantastic Four sia per FUTURE FOUNDATION).
LA FINE. E L’INIZIO. (#1/9 sesta serie, #642/655, settima serie)
Nella narrativa seriale è comunque fisiologico un ritmo sinusoide di alti e bassi. Per ogni Lee, Byrne, Millar e Hickman presenti sono necessari gli Englehart, Thomas, Pacheco: certo che però la valanga con cui sono stati travolti Matt Fraction prima e James Robinson dopo era di gran lunga immeritata.
Con l’unico grosso difetto di dover continuare a raccontare le storie dei quattro dopo una costruzione così maestosa, James Robinson Ha tentato in tutti i modi di tenere a galla una testata che, nonostante l’apprezzamento della critica, faticava ad arrivare al grande pubblico. La causa, probabilmente, è stata che gli albi uscivano in pieno boom del Marvel Cinematic Universe: cosa che ha portato ad un’esplosione delle testate Vendicative, un oscuramento (parziale) di quelle sui mutanti, e l’oblio per i quattro.
A niente sono servite le belle storie di Fraction, così come il red look (a dir la verità, osceno) che Robinson ha dato alle tute, traghettando i personaggi verso l’inesorabile fine.
Perché con il # 655, la storia dei Fantastici Quattro sembrava aver trovato una conclusione: banale, forse, provvisoria, di sicuro, ma con pagine piene di pathos e invenzioni niente male.
Quattro anni dovevano passare prima che la Marvel decidesse di rimettere in pista la loro prima famiglia.
IN MEDIAS RES (# 1/ in corso, ottava serie)
Se ci si fosse messi d’impegno, probabilmente sarebbe stato difficile trovare uno scrittore meno adatto a far tornare nelle edicole Reed, Susan, Johnny e Ben. Se da un lato Hickman riportava i mutanti alla giusta grandezza, con un concept nuovo di zecca, Dan Slott, autore di uno dei più criticati e odiati cicli di Spider-Man, veniva scelto per far tornare i Fantastici Quattro sulla Terra dopo un lungo viaggio interstellare a seguito degli avvenimenti di Secret Wars.
Se in un primo tempo avevano fatto ben sperare le matite delicate e sinuose della nostrana Sara Pichelli, a niente sono servite le meravigliose cover dipinte di Ariel Olivetti: l’ottava serie dedicata alla prima famiglia porta in copertina la doppia numerazione per l’operazione Legacy (dopo infiniti riavvi, la Marvel ha deciso di lasciare sia i numeri “nuovi” che quelli storici, e FF di Slott segna sia 1 che 656), ma non porta niente di nuovo alla narrazione. Slott era già funestamente celebre per la sua luminosa incapacità nel gestire i dialoghi: seppur bravo con i plot delle storie, la sua mancanza gravissima era e rimane quella di non riuscire a rendere la narrazione fluida, con il risultato di appesantire le sue storie e tirare una trama fino allo sproposito. Così, Reed e Sue trovano un nuovo cast di comprimari quanto mai inutile, e Ben e Alicia convolano finalmente a giuste nozze.
È storia di oggi il coinvolgimento della testata nel crossover 2020 Empyre: e qui proprio Slott, coadiuvato dal bravissimo Al Ewing, sembra imboccare una strada migliore. Ma è presto per dirlo, specialmente all’alba di un nuovo starting point narrativo, sempre con Slott in cabina di comando e Mark Brooks alle copertine.
Noi siamo qui, a sperare di meravigliarci ancora.