Nella giornata di venerdì 24 maggio, durante la decima edizione di ARF! Festival, si è tenuto il Talk “Fumetti a colori, gioie e dolori – Luci e ombre di una professione sempre più diffusa in Italia“: gli ospiti, tra gli esponenti di spicco della scuola colorista italiana, hanno raccontato la nascita, lo sviluppo e i rovesci della medaglia di questa professione relativamente giovane nel nostro paese.
Durante la prima giornata di ARF! Festival, giunto quest’anno alla decima edizione, si è tenuto un Talk che ha avuto e messo al centro una professione nel mondo del fumetto che sta avendo una meritatissima rivalutazione negli ultimi tempi, dopo essere rimasta un po’ all’ombra dei ruoli dello sceneggiatore e del disegnatore: il colorista.
Il Talk “Fumetti a colori, gioie e dolori – Luci e ombre di una professione sempre più diffusa in Italia“, tenuto nella sala apposita nella Città dell’Altra Economia, è stato condotto da Mauro Uzzeo (sceneggiatore per Sergio Bonelli Editore, Star Comics, Shockdom) alla presenza di cinque esponenti di spicco della scuola colorista italiana: Emiliano Mammucari (Orfani, Nero), Giovanna Niro (Chrononauts, Batman: Il Mondo, Jupiter’s Legacy, The Magic Order, Dylan Dog/Batman), Mattia Iacono (Daredevil, Spider-Man, Black Widow/Hawkeye), Francesco Segala (Firefly, Buffy, La Divina Congrega) e, in collegamento da casa, Stefania Aquaro (Orfani, Mister No).
Fumetti a colori, gioie e dolori – Il Talk!
Nella tradizione in bianco e nero del fumetto italiano, per troppo tempo i colori sono stati considerati una simpatica eccezione alla regola. Da un decennio le cose sono cambiate e la figura del colorista ha preso sempre più piede anche nel Belpaese. Ma quella del Colorista è davvero una nuova Terra Promessa? Che differenze ci sono tra la scena italiana e quella internazionale?
Un bel viaggio alla scoperta di una professione che in Italia, paese legato tradizionalmente alla produzione in bianco e nero (al netto di alcune eccezioni), sta acquisendo un ruolo sempre più importante e che sta vedendo crescere nuovi talenti e professionisti ormai richiesti in tutto il mondo. Un percorso relativamente giovane, alla ricerca di una identità che fosse riconoscibile e che si potesse distinguere da quelle americana e francese, dalla tradizione più lunga ed affermata.
È Emiliano Mammucari a raccontare la genesi, un po’ da capostipite di questa “famiglia”, della scuola colorista italiana per la quale l’opera spartiacque è stata “Orfani“ di Sergio Bonelli Editore. Fino a circa dieci anni fa la produzione italiana era indissolubilmente legata al bianco e nero: non vi era una formazione precisa «sul colore e sulla teoria del colore». Il cambiamento arriva nel momento in cui utilizzare il colore a livello tipografico e, quindi anche economico, non presenta ingenti differenze con il B/N: la “rivoluzione” non può prescindere però dalla ricerca di una identità.
I primi tentativi, molto ingenui, sono stati effettuati sovrapponendo il colore alle tavole ma ciò non era sufficiente: il colore doveva adattarsi alla narrazione tipica italiana. Ogni paese, infatti, ha il proprio modo di raccontare e di fare fumetto: l’utilizzo del colore doveva essere, dunque, coerente con la nostra tradizione.
Diviene indispensabile la creazione di una squadra che potesse capire come implementare al meglio il colore: si sperimenta, si prova fino a comprendere come «il colore si può utilizzare in maniera diversa per ogni storia, come la colonna sonora di un film, la musica, l’emozione di ogni storia» e che «non deve attaccarsi bene solo al disegno ma anche alla scrittura». I risultati di oggi variano dalla colorazione più “lisergica”, per esempio, in Eternity all’horror e sporco per Il Confine.
Conseguentemente, una volta sdoganato l’utilizzo del colore nel fumetto italiano, ancora fortemente legato soprattutto alla scrittura, si ha la necessità di delineare una identità “italiana” anche per la nostra scuola: il colore, quindi, doveva essere altrettanto forte e in grado di sostenere una sceneggiatura che raggiungeva, tipicamente, le 100 pagine. La necessità, infine, si fa virtù nella pratica: la carta più diffusa era refrattaria al colore e la strada intrapresa è stata quella di «far urlare il colore».
Oggi, questa scelta dà riconoscibilità alla scuola colorista italiana.
Sdoganato il ruolo del colorista anche in Italia, è naturale porsi la questione sul percorso che ha portato i protagonisti del settore a raggiungere questo ruolo e a sentirsi a tutti gli effetti dei “coloristi”. L’iter di ognuno ha dei punti di contatto in strade che hanno prese direzioni diverse: dall’inizio come disegnatori, prima che la scuola italiana avesse il battesimo con Orfani, magari approfondendo con dei corsi specializzati e passando per i paesi che ne avevano già una grande tradizione (come, appunto, gli Stati Uniti e la Francia).
Soprattutto per coloro che erano in attività prima della rivoluzione italiana del colore, la strada che ha portato al lavoro su Orfani sembra essere stata simile, con il passaggio anche nelle grandi case editrici oltreoceano (IDW Publishing, Titan Comics, BOOM! Studios per esempio) e oltralpe (come Futuropolis). I coloristi di “prima generazione” hanno iniziato proprio da disegnatori, poi lavorando in aiuto di altri disegnatori proprio sul colore e tali esperienze lavorative hanno permesso loro sia di comprendere le potenzialità di una scuola italiana, sia le differenze con le altre scuole estere: per Stefania Aquaro, per esempio, il colore francese è più «descrittivo» mentre quello italiano più «realista».
Discorso leggermente diverso per i coloristi più giovani, che hanno intrapreso percorsi differenti grazie anche al sentiero battuto dai professionisti più esperti: scegliere di fare il colorista oggi è possibile a priori, senza dover necessariamente affrontare altri ruoli “di passaggio”. Oggi esistono corsi specializzati, si può passare attraverso le fiere (come Lucca Comics, ad esempio) o l’autoproduzione e, perché no, sfruttare anche i social per mettere in mostra il proprio lavoro. Addirittura, come nel caso di Mattia Iacono, si può iniziare dagli States per arrivare in Italia (nel caso specifico, a Nero di Sergio Bonelli Editore).
Diventa fondamentale, quindi, fare tante prove e tante sperimentazioni, andando alla ricerca della giusta espressione attraverso il colore. Se da una parte è compositore della colonna sonora del film, dall’altra il colorista può essere «il direttore della fotografia» che sceglie «un linguaggio diverso per ogni fumetto» e per adattarlo al meglio al tratto del disegnatore.
I continui studi, le sperimentazioni e le prove, in questo modo, hanno permesso di sviluppare una «grammatica del colore» tutta nostra, addirittura in grado di “far tornare sui libri” artisti molto più esperti (con il ricordo commosso di Carlo Ambrosini). Le esperienze al di fuori dei nostri confini, inoltre, e l’abbattimento dei confini culturali e lo sviluppo di nuovi mezzi che hanno aumentato la velocità di trasmissione dei lavori, stanno portando verso nuove vette: le contaminazioni delle diverse scuole, grazie alle collaborazioni e ai lavori dei nostri interpreti, stanno creando «un calderone assolutamente incomprensibile ma assolutamente interessante» che sta portando ad «uno dei momenti migliori dal punto di vista artistico che ci siano stati dagli anni ’80 in poi».
La nascita, lo sviluppo e la crescita della professione del colorista ha portato inevitabilmente alla strutturazione della suddetta all’interno delle case editrici: fermo restando che la collettività e il lavoro di squadra è indispensabile per la riuscita di un progetto – e, fortunatamente, con una richiesta sempre maggiore -, è altrettanto necessaria una suddivisione dei compiti in relazione alle tempistiche e ai costi. Oggi il colorista deve essere pronto ad affrontare qualsiasi tipo di lavoro per «donare ad esso una identità» riconoscibile; anche dal punto di vista economico, ormai, essendo una professione ben retribuita ma contemporaneamente diffusissima nel mondo, pretende degli standard altissimi.
Le richieste dei vari editori, poi, possono essere diverse: la pubblicazione in edicola, quindi con tempi più stretti (ad esempio, per le serie Bonelli) non può prescindere da un lavoro di una squadra di coloristi, mentre le pubblicazioni in volumi da libreria (ad esempio in Francia con Glénat) hanno tempi più dilatati, con lavorazioni diverse a seconda degli stili, delle identità e dei gusti stessi delle varie case editrici.
A proposito di ciò, un aspetto da non sottovalutare negli Stati Uniti è il rapporto professionale strettamente legato alla figura degli editor delle varie case editrici che cambiano molto spesso e comportano, talvolta, delle difficoltà nella creazione di un rapporto artistico solido; allo stesso modo, il legame con il disegnatore e le relative collaborazioni non possono prescindere dall’affinità tra tutte le parti in causa. Il dialogo con gli sceneggiatori e gli editor diventa quindi fondamentale anche per accettare lavori con tempistiche più strette: a quel punto bisogna essere bravi a capire come lavorare, quali «escamotage utilizzare» per rientrare nei tempi.
Oggi la figura del colorista in Italia, in termini di riconoscimenti – economici e non -, sta cercando di e vuole affermarsi come negli altri paesi. Naturalmente la considerazione dei coloristi italiani all’estero è cambiata nel corso degli anni e a seconda delle richieste, con molti giovani che hanno potuto fare «manovalanza» in Italia e poi spostarsi quasi subito all’estero dove, con le stesse mansioni, hanno potuto subito mettersi al lavoro anche su grandi produzioni.
Negli altri paesi, sempre gli Stati Uniti e in Francia a modello, i coloristi hanno una visibilità maggiore: sulle varie pubblicazioni hanno il nome in copertina e, giustamente, sono candidati a premi di categoria nelle varie convention «mentre in Italia», ad eccezione del Treviso Comic Book Festival, «bisogna ancora lavorarci».
In Francia, con Glénat, si è molto attenti a dare il giusto spazio ai coloristi sulle pubblicazioni e ciò porta ad «una educazione del lettore ai ruoli» che può andare a cercare informazioni su quel nome, la sua figura e i suoi lavori precedenti (con un discorso simile che negli Stati Uniti sta avvenendo per i letteristi).
Anche se i colori nel mondo del fumetto ci sono da sempre come «in Superman, Batman e Capitan America degli anni ’40», la figura del colorista è nata da relativamente poco e «sta prendendo spazio da poco» in quanto tale ma questa figura «nel processo e nel percorso creativo necessita il riconoscimento maggiore».
Per coloro che volessero intraprendere questa professione, i consigli degli ospiti sono stati diversi e per tutti i gusti, come ovvie conseguenze delle loro esperienze personali, che fossero essi di prima generazione, tra gli architetti di questa rivoluzione, o più giovani: «leggere fumetti ed insistere perché il lavoro del colorista è meritocratico e porterà ad emergere».
E poi «studiare, guardare i film, la natura e le serie animate, qualsiasi cosa che contenga il colore; provare sempre e accettare anche i lavori di assistente» per lavorare sul campo, «studiare la luce e la teoria del colore perché è fondamentale capire come funziona il colore con la luce e cercare di capire, leggendo tanti fumetti, quali sono i canoni base e come vengono inseriti nel fumetto».
Per quanto riguarda l’aspetto lavorativo, «leggere i contratti, le scadenze e dialogare costruttivamente con gli editor» e, ancora, «studiare la teoria del colore e della luce, l’armonia come nella musica» e cimentarsi «se vi piace, se vi diverte, studiate l’acquerello perché non perdona mai, permette la conoscenza dei complementari» e porta a capire il colore e «tutto un mondo in cui si mescolano dentro».