È incredibile anche per noi di MegaNerd che lo scriviamo, ma è davvero successo… abbiamo avuto l’onore di intervistare Grant Morrison, autore di livello mondiale che ha scritto letteralmente pagine di storia del fumetto supereroistico (e non solo), soprattutto in casa DC Comics. L’autore scozzese ha risposto alle nostre numerosissime domande con le caratteristiche che lo contraddistinguono: genio, estro e creatività.
Sicuramente avrete sentito tutti, almeno una volta nella vita, la famosa espressione “il prossimo ospite non ha bisogno di presentazioni”.
Solitamente si usa per personalità talmente popolari e universalmente riconosciute, che qualunque tipo di introduzione al pubblico sarebbe inutile, semplicemente perché tutti sanno chi è e cos’ha fatto.
Pensate a Bruce Springsteen. Quando venne invitato da Barack Obama al Kennedy Center Honors per ricevere la Presidential Medal of Freedom, venne presentato dall’ex Presidente degli Stati Uniti semplicemente con una battuta: «I’m the President… but he’s the Boss».
È bastato solo questo a infiammare la platea, a far capire a tutti chi stesse entrando in scena.
Ecco, ora, se fossimo su un grande palco, probabilmente mi basterebbe far scorrere su un grande schermo le incredibili tavole di Animal Man. Oppure quelle della Doom Patrol… o la psichedelia folle e magnifica di Arkham Asylum. Potrei far vedere la prima, iconica copertina degli Invisibles, restando in tema di opere psichedeliche.
Oppure – visto che siamo nell’anno di Superman – sarebbe bello mettersi a parlare di All Star Superman, la più bella lettera d’amore che il nostro ospite potesse mai scrivere nei confronti dell’Uomo d’Acciaio e del suo mondo. Un’opera che probabilmente poteva essere disegnata solo dall’estro di Frank Quitely, che ha saputo cogliere con eleganza e tenerezza tutta la straordinaria potenza dell’Ultimo Figlio di Krypton.
E poi ci sono gli X-Men, anche quelli entrati nella storia: una rottura totale con il passato un (quasi) reboot che ha sconvolto i fan nei primi anni del Nuovo Millennio. Per non parlare della sua lunghissima run su Batman (personaggio che a breve tornerà a scrivere) o degli albori del New 52 con una versione di Action Comics tanto vicina alla Golden Age che a un futuro prossimo.
Insomma, potrei dire tanto, ma non serve.
Parliamo di un personaggio divisivo, sempre contro corrente, che ha stravolto la grammatica dei comics e dei supereroi. Uno che ha parlato con la voce che abbiamo in testa mentre leggiamo.
Un personaggio che non può passare inosservato, qualunque cosa faccia.
E come lo presenti uno così? Non si può, basta il nome per infiammare gli animi.
Signore e signori, Grant Morrison è su MegaNerd.
E in qualità di direttore, non ho davvero altro da dire.
Grant Morrison – Intervista esclusiva
Benvenuto sulle nostre pagine, Grant. Per noi è davvero un onore avere l’opportunità di scambiare quattro chiacchiere con te, dunque per prima cosa ti ringraziamo per averci dedicato un po’ del tuo tempo.
Il piacere è tutto mio!
Ti capita mai di guardarti alle spalle e dire “wow, ho davvero fatto tutto questo?”
Sempre! Era proprio ciò che volevo fare fin dall’inizio, ma sono eternamente grato che tutto sia andato per il verso giusto!
Una delle tue citazioni che preferisco è tratta dal tuo libro, Supergods: «Mentre gli altri si davano da fare con i meccanismi base per comprendere come potessero funzionare i supereroi in un ambiente tipicamente reale, io decisi che che avrei piantato la mia bandiera nel mondo dei sogni, della scrittura automatica, delle visioni e della magia, dove, dopo gli anni del puritanesimo, mi sentivo improvvisamente più a mio agio.»
In effetti questa è stata la cifra di tutta la tua carriera, non hai mai tentato di portare i supereroi nel mondo reale, ma hai sempre trascinato noi lettori nel mondo della fantasia. Come mai, secondo te, molti hanno cercato di portare un frammento di fantasia nella realtà e nessun altro (in epoca moderna) ha mai pensato di fare il percorso opposto?
Credo che più che di fantasia, si tratti di un livello superiore della realtà. A mio avviso, i supereroi esistono davvero: possiamo toccarli, interagire con loro – li troviamo nei fumetti, nelle storie. Superman, ad esempio, non è reale in senso fisico, ma esiste come “iper-oggetto“, una figura presente in migliaia di pagine che raccontano le sue avventure da oltre 80 anni. È un personaggio ricco, coerente, ben definito: possiamo tenere in mano i suoi fumetti – questo è, in un certo senso, il suo vero corpo.

Superman è un’entità che trascende il tempo: un evento accaduto nel 1963 può essere ripreso oggi e affiancato alle sue nuove avventure. E ancora più importante, può ispirare compassione, coraggio, azione – senza essere “reale”.
Personaggi come Superman o Batman, nonostante siano nati per un pubblico giovane e siano plasmati dalla cultura pop, hanno una presenza quasi eterna. Sono stati creati prima di me e mi resteranno quando non ci sarò più. Lasciano un’impronta nella storia che va oltre la mia. In un certo senso, sono più reali di me.
Ecco perché trovo limitante cercare di rendere “realistici” i supereroi, ancorandoli a leggi fisiche, psicologia o politica. Così si rischia di sottrarre loro proprio quel potere trasformativo che possiedono. I supereroi sono modelli ideali delle nostre qualità migliori: compassione, giustizia, altruismo. Hanno un valore concreto per la nostra vita quotidiana. Non volevo caricarli di problemi e nevrosi da esseri umani comuni.
Come autore, mi sono invece chiesto cosa succederebbe se provassi a pensare come un supereroe. Immaginare la mentalità di un Superman o di un Batman è stato per me formativo e persino terapeutico. Proiettarmi in quel mondo più semplice, brillante e intenso era infinitamente più interessante che rappresentare un “eroe realistico” immerso nel grigiore. Gli esseri umani li conosciamo già fin troppo bene. Nei miei lavori indipendenti ho esplorato il mondo reale, ma se dovevo trascorrere anni scrivendo storie di supereroi, volevo che fossero più che semplici uomini con costumi sgargianti: volevo che fossero davvero super.
Quanto è difficile – se lo è – riportare il “sense of wonder” che si respirava durante la Golden e Silver Age ai nostri giorni? Pensi ci sia ancora un modo per lasciare i lettori a bocca aperta, facendogli sussurrare “wow”?
Non lo trovo affatto difficile! Tendo a trovare la maggior parte delle cose meravigliose, e cerco di trasmettere quel senso dove posso. Fa parte del bagaglio tecnico di uno scrittore, come la capacità di evocare paura, eccitazione, tristezza o speranza. J.G. Ballard [scrittore britannico, n.d.r.] parlava di scrivere della Terra come se fosse un pianeta alieno – ed è una visione che ho spesso fatto mia.
Una delle sliding doors più importanti della tua carriera è stata sicuramente la chiamata da parte di DC Comics, che ti ha spalancato le porte del grande fumetto internazionale. Ma nulla sarebbe accaduto senza il tuo lavoro su 2000 A.D. Cosa ricordi di quegli anni? Le paure, le speranza, i sogni del giovane Grant.
Ricordo un periodo teso ed emozionante. C’era sempre la possibilità concreta che tutto potesse andare in fumo. Quando mi chiamò la DC, lavoravo nei fumetti già da dieci anni. Avevo pubblicato su Near Myths [comic magazine pubblicato a Edimburgo verso la fine degli anni ’70, n.d.r.], realizzato Captain Clyde per tre anni come striscia quotidiana e collaboravo saltuariamente con Starblazer. Ma la mia carriera sembrava bloccata.

Spesso mi capitava di ottenere lavori su progetti che venivano cancellati prima ancora di partire. Mi sentivo sfortunato. Venivo da una realtà dove i ragazzi della mia classe sociale erano destinati a fallire, ma io ero determinato a scappare da quel destino.
Fortunatamente, i miei genitori hanno sempre sostenuto la mia creatività. E intorno a me c’era un fermento artistico incredibile: mia sorella, la mia ragazza, la mia band. Era un’epoca in cui ci si sentiva legittimati a ignorare il mainstream e creare una propria cultura alternativa: fanzine, mixtape, club, concerti, dischi autoprodotti. Venivamo da un mix culturale tra anni Sessanta e punk, e ci sembrava naturale fondare le nostre scene e i nostri micro-movimenti. Il nostro motto era: esprimersi prima ancora di essere tecnicamente bravi. La passione prima della tecnica!
Non dubitavo delle mie capacità, ma non sapevo se qualcuno mi avrebbe mai preso sul serio. In fondo, lo penso ancora oggi – con la differenza che ora ho alle spalle una carriera solida! Devo moltissimo a John Ridgway [fumettista britannico, n.d.r.]: fu lui a disegnare le mie storie dei “Liberators” su Warrior e a sostenermi nei momenti chiave. Grazie a lui arrivai a lavorare per Marvel UK su Doctor Who e Zoids. Da lì, tutto cambiò: Marvel UK mi portò su 2000 A.D., e fu lì che la DC si accorse di me. Dal 1986 potei finalmente scrivere a tempo pieno.
Quando il successo arrivò, fu inebriante. Non avevo mai avuto un soldo in tasca, e all’improvviso potevo viaggiare per il mondo. Tutto finanziato semplicemente scavando nella mia testa alla ricerca di storie folli e surreali!

Arrivi in DC Comics e con Animal Man fai capire immediatamente che è possibile veicolare alcuni messaggi anche dalle pagine di una serie – fino a quel momento – di secondo piano. Giochi con la ‘metatestualità’, parli con il personaggio che salta fuori dal fumetto, denunci le violenze sugli animali, parli di famiglia con tutti i problemi che possono esserci. Come sono nate quelle storie così fuori dagli schemi?
Mi piacciono molto i primi quattro numeri di Animal Man – sono scritti e strutturati in modo molto solido – ma tendo a considerarli più come un campione di scrittura pensato per convincere la DC a lavorare con me.
Così come Swamp Thing aveva affrontato con successo temi ambientali ed ecologici, mi sembrava appropriato che Animal Man affrontasse le questioni legate ai diritti degli animali. All’epoca ero un sostenitore dell’ALF (Animal Liberation Front) e attivista per i diritti degli animali, quindi quell’aspetto della serie era una scelta naturale e mi permetteva anche di esplorare alcune delle mie riflessioni in forma narrativa. Credevo fermamente che dovessi usare il mio lavoro per sostenere le cause e le idee in cui credevo, e sentivo che la mia scrittura poteva avere una dimensione politica utile. L’influenza di Swamp Thing è evidente.
Quando la serie fu estesa oltre i quattro numeri iniziali, dovetti fare sul serio. Imitare Swamp Thing dimostrava che ero in grado di scrivere in uno stile lirico e ricco di didascalie, che stava diventando un tratto distintivo degli autori britannici (vedi anche Jamie Delano, Neil Gaiman e Peter Milligan), ma volevo trovare una mia voce, un mio territorio.
The Coyote Gospel nel numero 5 di Animal Man fu una correzione di rotta deliberata e una dichiarazione d’intenti. L’ispirazione venne dalla copertina di The Flash #163, dove il velocista supplica i lettori di comprare il fumetto, perché la sua vita dipende da quello! Mi piaceva l’idea di un contatto diretto tra l’universo dei fumetti e il mondo reale del lettore, e questo mi offriva spunti interessanti su come potrebbero funzionare e intersecarsi le dimensioni superiori.
Soprattutto, volevo fare qualcosa che si muovesse in una direzione diversa rispetto alle tendenze dominanti nei fumetti. Per quanto amassi la nuova maturità delle storie di supereroi, come Marvelman, The Dark Knight Returns e Watchmen, consideravo l’approccio ‘realistico’ spesso celebrato come un vicolo cieco creativo. Più si cercava di rappresentare i supereroi in un contesto plausibile, meno efficaci diventavano. Decisi quindi di esplorare l’interazione fisica e tattile che abbiamo con i fumetti e con i personaggi – il modo in cui li “consumiamo”, toccando e sfogliando le pagine, è molto diverso da ogni altro mezzo ed è sorprendentemente intimo.
Disegni grezzi possono evocare emozioni autentiche e potenti. Mi interessava il rapporto tra fumetto, personaggio e lettore sia sul piano fisico che intellettuale, nel mondo materiale reale, e quell’approccio ha dato nuova energia alla mia scrittura, offrendomi un piccolo spazio creativo tutto mio in cui giocare per un po’.
Davo per scontati ambientazioni fantastiche e superpoteri. Accettavo che quei personaggi vivessero in un mondo semplificato, fatto di colori primari e motivazioni elementari, e non ho mai cercato di immaginarli ‘reali’ nel senso vivo e concreto. Come dicevo, i supereroi erano ovviamente reali nel senso che potevano essere toccati, vissuti e da cui si poteva imparare.
È per questo che ho deciso di inserire in Animal Man il mio ‘fiction suit’, una versione narrativa di me stesso, per dialogare direttamente con il personaggio.
Anche con la Doom Patrol ti sei divertito parecchio: supereroismo, magia nera, cospirazioni, ma anche divertimento. Un mix incredibile, che ti ha dato la ribalta mondiale.
Ho adorato scrivere Doom Patrol e sono ancora molto affezionato a quei personaggi. Era esattamente la serie giusta per me, nel momento giusto, e mi ha permesso di esplorare ancora di più gli aspetti psichedelici e surreali dei fumetti di supereroi, che erano quelli che mi affascinavano di più. Era anche un modo per connettere la cultura più ampia – sia alta, che popolare – al mio lavoro nei fumetti. E mi ha dato l’opportunità di scrivere e romanzare il mio eccentrico gruppo di amici. Era un modo per aprire nuove strade alle storie di supereroi, senza ripetere il trucco di Animal Man.
Sei forse l’unica persona sulla Terra ad aver criticato Watchmen, che nel mondo del fumetto viene considerato quasi un “testo sacro”. In cosa, secondo te, poteva essere migliore?
Non so se Watchmen avrebbe potuto essere migliore; è un’opera straordinaria e tecnicamente brillante. Ma quando uscì l’ultimo numero, avevo già conosciuto Brendan McCarthy [artista e designer britannico n.d.r.] ed ero rimasto folgorato dai suoi tre numeri di Strange Days, con Peter Milligan e Brett Ewins. Per me, il lavoro di Milligan/McCarthy oscurava Watchmen e faceva sembrare lo stile di Moore rigido, poco sensuale e ‘Frankensteiniano‘.

L’immaginazione prodigiosa di McCarthy e il suo accesso inesauribile all’inconscio furono una vera sveglia. Non volevo più cercare di rappresentare la realtà, volevo mostrare cosa c’era dentro la mia testa! Scrittori più bravi di me potevano descrivere il mondo reale, ma solo io potevo raccontare il mio mondo interno personale, quindi ho deciso di specializzarmi in un campo dove ero l’unico esperto!
Per quanto riguarda Watchmen, ho espresso alcune critiche, così come lodi, ma alla fine, per me, il problema di fondo era nella storia – perché Ozymandias non recluta Dr. Manhattan per realizzare il suo piano e salvare il mondo?
Il testo dimostra chiaramente che Manhattan fa quasi sempre ciò che gli si dice. Lui ha il potere, Ozymandias ha il piano e il carisma. Invece, Ozymandias recluta un team di artisti visionari per creare un falso mostro spaziale. Poi deve uccidere non solo tutti gli artisti, ma anche metà di New York, lo staff della sua base in Antartide e anche Rorschach! Poi si sente in colpa, e noi siamo invitati a riflettere sulle ambiguità dell’eroe affascinante che uccide milioni per portare la pace nel mondo. Che ironia!
Ogni volta che rileggo Watchmen, vengo distratto dalla stupidità grandiosa del piano di Ozymandias. La storia può esistere solo perché l’Uomo Più Intelligente del Mondo fa la cosa più stupida del mondo, anche dopo aver avuto accesso personale a un uomo con poteri divini, per decenni!
Continuo a godermi Watchmen sul piano della tecnica e della struttura narrativa: i meccanismi precisi, la sicurezza nella narrazione, i personaggi costruiti con maestria, la trama congegnata come un orologio perfetto, e i trucchi narrativi brillanti. Ma il suo messaggio morale mi sembra un po’ disonesto, perché non è plausibile che Adrian Veidt non coinvolga Dr. Manhattan – fosse anche solo per creare un falso alieno, se proprio quella era la sua idea migliore – oppure per cambiare il mondo in modo meno letale. E poi lasciare tutto aperto alla scoperta tramite il diario di Rorschach…
Detto ciò, lo stesso Alan Moore ha detto: «… se queste creature, questi supereroi si manifestassero in un mondo reale, i risultati sarebbero orribili e grotteschi. Questo era, in sostanza, uno dei messaggi principali di Watchmen: che non funzionano nella realtà! Anche nella realtà fittizia che ho costruito per loro, non funzionano, rovinano tutto.»
Dal mio punto di vista, è un’idea assurda. I supereroi non esisteranno mai nel mondo reale – perché allora dobbiamo essere avvisati su cosa succederebbe se ci fossero? Abbiamo davvero bisogno del messaggio che i supereroi non funzionano nella realtà, quando nella realtà non esistono e mai esisteranno? E Moore potrebbe anche avere torto: magari degli esseri superumani reali svilupperebbero una super-moralità quasi santa e sarebbero molto diversi da noi. Non lo sappiamo, perché non esistono e con tutta probabilità non esisteranno mai!
Se quello che l’autore vuole dirci è qualcosa di banale come «il potere corrompe» o «gli ideali elevati portano alla rovina», usare i supereroi per farlo, mentre li si limita apposta con difetti umani e senza neanche capire il concetto base di “fare squadra”, mi sembra un modo complicato per presentare una tesi così semplice.
È un po’ come costruire il Taj Mahal per avvertire il mondo che gli unicorni sono malvagi e ci distruggerebbero se li lasciassimo fare. Tutta quella struttura meravigliosa e intricata deriva da un’idea che mi pare fragile e pretenziosa, appena degna di essere presa sul serio.
Detto questo, il risultato è Watchmen – un classico straordinariamente realizzato e giustamente amato da molti. Il libro si è guadagnato la sua reputazione, ma ci sono storie di supereroi che preferisco di gran lunga.
Arriviamo agli anni 90. L’epoca dark/revisionista degli anni 80 era finita e si puntava moltissimo sull’azione e il divertimento, cercando di rendere sempre più attuali i supereroi (in molti casi cambiando il personaggio sotto la maschera, oppure facendo dei restyling nel look e nell’attitudine).
A te fu affidato un rilancio molto importante, quello della Justice League. Era da un po’ che mancava il supergruppo per eccellenza della DC dagli scaffali delle fumetterie americane, ricordo che fu un successo immediato, ancora oggi la tua run è un punto di riferimento per chiunque voglia approcciarsi a questa serie. Quali sono stati, secondo te, i punti di forza che hanno reso la tua JLA un bestseller?
Chiesi – e mi fu concesso – di usare i sette membri originali della Justice League. Per me, il senso di un fumetto come Justice League era quello di riunire i personaggi più potenti della DC, i gioielli della corona. A quel tempo, la serie stava attraversando un periodo poco brillante, con personaggi di serie C a riempire la squadra. Era ovvio che la serie aveva solo bisogno di essere più grande e ambiziosa. Doveva diventare il fumetto imperdibile della DC ogni mese.
Volevo rivolgere il fumetto al pubblico giovane che leggeva Wizard e i titoli Image, proprio mentre cominciavano forse a cercare qualcosa con più sostanza. Lo vedevo come il mio fumetto per ragazzini svegli di 12-14 anni, mentre The Invisibles era per adolescenti più grandi e ventenni.
Questo significava puntare a storie più grandi. Sentivo che la Justice League aveva bisogno di avventure su scala epica – ogni numero doveva essere l’equivalente della ‘Trilogia di Galactus’ dei Fantastici Quattro!
Cominciai a guardare alla mitologia per trovare l’atmosfera che volevo e molte delle storie affondano le radici nella mitologia celtica, norrena e soprattutto arturiana. Abbiamo preso e mescolato ambientazioni selvagge da tutto il DC Universe – la Quinta Dimensione, il Paradiso e l’Inferno, il Quarto Mondo, ecc. – così le storie potevano andare ovunque.
Anche nel caso della JLA sei andato controcorrente rispetto alla moda di quegli anni. Hai scelto un approccio classico, hai rimesso al centro gli eroi più rappresentativi della DC, rendendoli una squadra, forse per la prima volta. Ci hai catturati tutti proponendo delle sfide di portata sempre più grande: che solo un gruppo di semi-dei (e Batman) poteva affrontare…
Mi sembrava controproducente avere i supereroi migliori e più forti della DC nella squadra, e NON farli combattere ogni mese contro minacce mitologiche o cosmiche. Gli anni ’90 erano l’epoca del cinema blockbuster e JLA faceva parte di quello zeitgeist. Fu una pura coincidenza che il nostro primo numero mostrasse un disco volante che fluttuava sopra la Casa Bianca in prima pagina, con una pubblicità di Independence Day sul retro che mostrava quasi la STESSA immagine! Questo dimostra quanto fossimo sintonizzati, anche a livello subconscio, con la cultura pop del momento!
Parliamo ora di Superman, personaggio con cui hai un feeling particolare: con All Star Superman hai sostanzialmente realizzato una delle più grandi lettere d’amore al personaggio, andando a riprendere lo spirito dell’Uomo del Domani ed espandendolo fino a farlo arrivare ai giorni nostri. Dov’è nata la scintilla che ha fatto partire questa storia?
Mi sono appassionato sempre di più a scrivere Superman nella JLA man mano che andavo chiarendo le mie idee sui supereroi e su ciò che sanno fare meglio. Il fatto che la scena in cui Superman interviene per impedire un suicidio abbia realmente evitato la perdita di giovani vite nel mondo reale dimostra ciò che intendevo.
In All Star Superman vediamo un Clark sereno: è consapevole di essere arrivato alla fine, ma per tutta la storia è come se volesse tranquillizzare anche noi lettori, a partire dall’iconica copertina di Frank Quitely, in cui lo vediamo seduto a sorridere verso di noi. È praticamente un dio, che ci difende – ovviamente – ma che vuole ispirarci fino alla fine. È così che vedi Superman?
Superman osserva il mondo dall’alto, ma è rilassato – ha tutto sotto controllo – e, cosa più importante, si gira verso di noi e con il suo sguardo, ci invita a stare con lui. Questo è il messaggio della prima copertina.
L’idea di base mi è venuta vedendo un cosplayer di Superman: la sua postura rilassata mi ha fatto riflettere molto su questo approccio al personaggio. Mi ha colpito il pensiero che un uomo invulnerabile probabilmente avrebbe una presenza fisica più aperta e accogliente, piuttosto che la classica posa rigida da bodybuilder.
È anche un’immagine da fiaba, che suggerisce un ritratto forse più intimo di Superman.
Nella tua gestione di Action Comics abbiamo invece un Uomo d’Acciaio totalmente diverso: è il difensore degli oppressi, ma lo vediamo scontroso, più introverso. È un Clark che ovviamente si dà da fare, ma che sorride di meno, come mai?
Non credo che il mio Superman fosse scontroso o introverso! Quella versione del Superman del New 52 è arrivata da altre direzioni. Il mio Superman sorrideva sempre, era dinamico, sempre in azione. Amava il suo lavoro nello stesso modo in cui io amo il mio!
Superman, Batman e Wonder Woman: hai scritto storie per i tre capisaldi della DC. Non ti sembra incredibile che a distanza quasi di un secolo siano ancora loro le colonne della casa editrice?
Erano idee di base molto buone, create con cura all’alba del concetto di supereroe, quindi hanno il potere dell’originalità, e coprono un’ampia gamma di generi – Superman è fantascienza, Batman è noir/crime, Wonder Woman è fantasy mitologico. Sono i colori primari della narrativa supereroistica. Puoi mescolare quegli elementi all’infinito per creare quasi tutti i personaggi venuti dopo – Superman e Wonder Woman generano Capitan Marvel. Hanno quella qualità fondamentale che assicura loro una lunga durata.
Nella tua lunghissima run su Batman è successo di tutto: hai reso ufficialmente Bruce Wayne un papà, lo hai persino ucciso e mandato indietro nel tempo, mentre nel presente Dick Grayson prendeva il suo posto. Quello che hai lascito tu nella mitologia di Batman è evidente, vorrei però chiederti: cos’ha lasciato dentro di te un ciclo così lungo e strutturato?
Un buco a forma di Batman! Le mie storie sono come denti estratti: una volta uscite dalla mia testa, sono andate! Mi sento molto orgoglioso di aver avuto una relazione così lunga e piacevole con una delle figure più iconiche della cultura pop. Mi è rimasto un grande rispetto per il personaggio e, soprattutto, per lo scrittore Bill Finger, che considero uno dei più grandi autori di fumetti di tutti i tempi.
Nel 2001 approdi alla Marvel Comics. Crei Marvel Boy e poi ti dedichi a quello che è, probabilmente, il tuo lavoro più importante per la Casa delle Idee e che ritengo essere la seconda più significativa rivoluzione delle testate mutanti dopo quella apportata da Chris Claremont e John Byrne negli anni ‘70/’80: New X-Men.
Nel momento in cui ti sono state date le redini del mondo mutante, quali sono stati gli elementi fondamentali su cui hai ritenuto di doverti concentrare per proiettare in maniera decisa gli X-Men nel nuovo millennio e di cui sentivi avessero bisogno per tornare a essere un punto fermo dell’Universo Marvel?
Per la mia run su X-Men ho puntato tutto sulla fantascienza e il dramma da soap opera. Avevo visto il film degli X-Men nel 1999 e mi colpì il modo in cui trattavano il materiale più come fantascienza che come classico fumetto di supereroi.
Molti pensano che i costumi dei nostri New X-Men fossero ispirati al “cuoio nero” dei film, ma in realtà si ispiravano agli operatori ecologici e ai lavoratori municipali. I nostri X-Men indossavano giacche catarifrangenti con grandi X fluorescenti.
All’interno di New X-Men hai anche inteso la parola ‘mutazione’ nel senso più genetico del termine. Sino a quel momento la maggior parte dei mutanti sviluppavano poteri mantenendo però sembianze umane senza particolari cambiamenti fisici se non in rari casi come La Bestia o Nightcrawler.
Nella tua run, ha introdotto diversi personaggi con mutazioni fisiche importanti, come Becco o Glob Herman, entrati nel cuore di molti lettori. Per la creazione di questi personaggi quanto è stato importante il contributo di Ethan Van Sciver? Avete tratto ispirazione da opere (letterarie o cinematografiche) del passato per la caratterizzazione?
Volevo semplicemente mostrare dei veri outsider, e ho iniziato da Ugly John, nella prima pagina del primo numero. Gli X-Men di solito sembravano modelli, quindi volevamo dimostrare che alcune mutazioni potevano anche essere svantaggiose!
Ethan ha disegnato molti dei personaggi per una scena di gruppo con gli studenti mutanti. Dovevano essere solo comparse, ma alcuni design – come Glob Herman, uno scheletro sospeso in un’enorme massa gelatinosa rosa – erano così interessanti che ho deciso di dare loro spazio come veri e propri personaggi.
Cosa ti affascinava di Emma Frost tanto da renderla uno dei personaggi più importanti non solo per i tuoi X-Men, ma anche per chi è venuto dopo di te e ha gestito i mutanti, tanto che, a distanza di oltre 20 anni, è ancora ritenuta una tra le più carismatiche X-Woman?
Emma mi è stata suggerita da un lettore, quando mi ritrovai nell’impossibilità di usare Colosso nella squadra. Volevo un eroe con un “corpo duro”, ma lui era morto all’epoca, quindi mi sono chiesto se potessi modificare i poteri di Emma per darle una forma diamantina.
Adoro scrivere personaggi del tipo “bitch intelligente e privilegiata”, e il fatto che Emma fosse anche un’insegnante mi permise di attingere da The Prime of Miss Jean Brodie [in italiano La strana voglia di Jean n.d.r.], uno dei miei film preferiti.
Parlando di donne dal forte carisma, Wonder Woman: Terra Uno è la tua personale visione di Diana e del mondo delle Amazzoni. Con un approccio probabilmente provocatorio, hai cercato di proporre una versione del personaggio più vicina a quella ideata dal creatore William Moulton Marston, proiettandola però nel mondo moderno. Hai definito all’epoca Terra Uno il lavoro più eccitante che tu abbia fatto in quegli anni. Ci puoi raccontare qualcosa di più approfondito su cosa rappresenta idealmente la ‘tua’ Wonder Woman?
È stato un lavoro decisamente frainteso! Alcuni lettori pensavano che Diana fosse rappresentata come una fascista, solo perché riusciva nella sua missione: portare pace e sicurezza in un mondo violento e arrabbiato!
Il mio intento era semplicemente quello di portare fino in fondo le filosofie del suo creatore, William Moulton Marston, e vedere cosa ne sarebbe scaturito. Wonder Woman sconfigge la Guerra!
Tutto in quei volumi si basa sulle idee originali di Marston – a volte per celebrarle e svilupparle, altre per decostruirle o criticarle. Ad esempio, le Amazzoni immortali si sono isolate per 3000 anni su Paradise Island, senza fare nulla per aiutare le donne comuni nel mondo reale, che venivano bruciate come streghe, stuprate o vendute. Non ho inventato questa parte della storia, ma dovevo trovare una giustificazione plausibile per un isolamento così lungo.
Mi interessava esplorare l’ideale amazzone della sottomissione a un’autorità amorevole, così centrale nelle teorie di Marston, e costruire attorno a esso una vera e propria mentalità culturale – qualcosa per cui il patriarcato non era minimamente preparato.
La società femminile di Harmonia, che ha turbato così tanto alcuni lettori, in realtà compare in Wonder Woman #7 del 1943! In quella visione, le Amazzoni prendevano il controllo del mondo e lo trasformavano in un’utopia guidata dalle donne. Noi abbiamo solo mostrato alcuni dei passi che avrebbero potuto portare a tutto questo.
Diana pacifica il “mondo degli uomini” violento, crudele, arrabbiato, senza spargimento di sangue! Porta a termine la sua missione: sconfigge Ares, porta la pace, pone fine al patriarcato e inaugura una nuova età dell’oro fatta di prosperità, creatività ed esplorazione! Sorride, piange, è tosta, intelligente, divertente e coraggiosa. Eppure alcuni lettori si sono arrabbiati perché le Amazzoni dicevano cose cattive sugli uomini
Io resto molto soddisfatto di Wonder Woman: Earth One, anche se un po’ deluso dal fatto che sia stato trascurato o sottovalutato rispetto ai miei lavori su Superman e Batman. Forse era fuori sincronia con i tempi e appariva più provocatorio di quanto intendessi. Ha più in comune con All-Star Superman, che non è canonico, che con il mio lungo lavoro in continuity su Batman, ma per me Wonder Woman: Earth One fa parte del mio studio e della mia visione sulla ‘trinità’ dei tre grandi personaggi della DC. Mi piace pensare che arriverà il momento in cui verrà rivalutato.
Uno dei tuoi ultimi lavori in DC Comics è stato Lanterna Verde, dove con Liam Sharp, in veste anche di co-autore, avete avuto un approccio particolarmente sperimentale sull’eroe intergalattico. La storia è stata suddivisa in due stagioni, come una serie TV, riprendendo quelli che sono i leitmotiv della Lanterna Verde Hal Jordan: poliziotto dello spazio (prima stagione) e difensore della Terra (seconda stagione). Quanto è stato stimolante per te questo progetto e, soprattutto, come ti sei trovato a dividere la parte di ‘regia’ con Liam, che si è comportato egregiamente?
Adoro lavorare con Liam – può disegnare qualsiasi cosa, in qualsiasi stile. L’ IA non può competere con lui!
Eravamo molto in sintonia per questo fumetto e si è trattato molto più di una collaborazione vera e propria rispetto ad altri miei progetti: parlavamo spesso al telefono di ciò che volevamo fare e ci spingevamo l’un l’altro a sperimentare sempre.
Lavorare su The Green Lantern è stato molto dinamico e creativo, e anche quando le cose si sono fatte difficili nella seconda stagione – la nostra run è stata interrotta, poi ripresa, poi cambiata di nuovo, il che è stato demoralizzante – è stato grandioso avere un “partner in crime” dalla mia parte nei momenti duri.
A parte l’esaurimento finale, The Green Lantern era perfetto per dove si trovava la mia mente in quel periodo, mentre mi allontanavo dal ritmo delle serie mensili. Non facevo quel tipo di space opera dai tempi di Starblazer e 2000A.D., ed è stato divertente rimettere in moto quei muscoli con un artista capace di visualizzare qualsiasi mia follia… e persino di superarla.
Parliamo di Cinecomics: anni fa avevi in qualche modo predetto che avrebbero dominato il box office, ma ti saresti mai aspettato di vedere così tanti film dedicati ai supereroi?
Onestamente? Sì. Lo avevo previsto già nel 1999! Scrissi persino un articolo profetico per l’Evening Standard di Londra [noto anche come The Standard, è un quotidiano locale britannico n.d.r.] intitolato “I geek erediteranno la Terra”, e direi che si è avverato piuttosto alla lettera, negli ultimi 25 anni.
Impossibile non menzionare a questo punto il nuovo film di Superman: James Gunn ha dichiarato più volte che tra le fonti d’ispirazione c’è proprio All Star Superman (almeno come toni), sei stato contattato dal regista durante la lavorazione del blockbuster?
Sono amico di James Gunn da molti anni, ma no, non sono stato coinvolto in nessun aspetto del film o delle serie TV, con mia grande delusione!
Stando alle ultime dichiarazioni di Gunn e Safran sembra che anche il prossimo film dedicato al Cavaliere Oscuro (Batman: The Brave and the Bold) sarà ispirato dalla tua run iniziale sul mensile di Batman, in cui ha debuttato Damian Wayne. A quanto pare le tue idee hanno conquistato Hollywood…
Fa sempre piacere vedere le mie storie riemergere nei film e nelle serie TV della DC, o anche nei film Marvel – come l’apparizione di Cassandra Nova l’anno scorso su Deadpool & Wolverine – ma sarebbe ancora meglio se fossero “ispirati” anche a riconoscerci un giusto compenso per la creazione di questi personaggi!
Ci sono state tre stagioni della serie TV Doom Patrol, basata sui personaggi che ho creato con Richard Case, e tutto ciò che ho ricevuto è stato qualche migliaio di dollari. Le case editrici di fumetti sono esattamente come ce le raccontano: banditi senza scrupoli, pronti a fregarti senza esitare, non importa quanto tu sia un nome importante nel settore. È sempre stato così, sempre lo sarà, e bisogna esserne consapevoli se si sceglie di avere a che fare con loro.
Abbiamo letto che è in lavorazione una serie TV tratta da The Invisibles. Ti possiamo chiedere a che punto è la produzione e quanto sei coinvolto nel progetto?
Non è più in sviluppo. Era in lavorazione presso Amazon, prima presso Netflix e prima ancora con UCP. The Invisibles è stato ovunque! Ho scritto diversi episodi pilota completamente differenti, e persino sceneggiature per un film! È stato come una nave pirata che ha saccheggiato i forzieri di uno studio dopo l’altro senza mai essere realizzata… penso sia arrivato il momento di ammainare la Jolly Roger e lasciare riposare The Invisibles per un po’.
Pensi ci siano davvero dei personaggi “difficili” da scrivere, oppure bisogna semplicemente trovare la storia adatta a ogni personaggio?
Credo che ogni personaggio abbia un angolo interessante da esplorare. Anche i personaggi meno promettenti hanno sempre qualche lettore che li ama per un motivo preciso. Bisogna solo riuscire a intercettare quell’aspetto.
Quali saranno i prossimi progetti di Grant Morrison?
Attualmente sto lavorando a una serie TV che con ogni probabilità sarà un progetto importante, ma sono vincolato da così tanti N.D.A. (accordi di riservatezza) che non posso rivelare nulla.
A parte questo, ho in arrivo un fumetto supereroistico breve e volutamente “sciocco”, realizzato insieme a un paio dei più grandi nomi del genere (altrettanto “sciocco”). Inoltre, per la fine del 2025 è prevista l’uscita di un progetto più lungo – diciamo solo “un po’ meno sciocco” – in cui tornerò a lavorare su Captain Clyde, un personaggio che non toccavo da quarant’anni, stavolta in collaborazione con Etienne Kubwabo, creatore del supereroe di Glasgow DJ ET.
Ho anche scritto due nuove novelle in prosa che con ogni probabilità pubblicherò a puntate sulla mia pagina Substack. In generale, mi sto godendo questa libertà dal ritmo serrato delle uscite mensili, e la possibilità di esplorare territori nuovi e idee diverse!
Ringraziamo enormemente Grant Morrison di averci onorati della sua presenza e di essersi raccontato a noi e ai nostri lettori, condividendo le sue idee e la sua filosofia di autore di comics, e aver ripercorso gran parte della sua immensa carriera. Speriamo di avere l’occasione in futuro di poterlo avere ancora ospite sulla nostra pagina.
Nota: Questa intervista è stata realizzata prima della notizia che Morrison sarebbe tornato a scrivere per DC Comics su un progetto legato a Batman. Abbiamo provato a chiedere qualche informazione in più, ma lo scrittore non ha potuto dire nulla di quanto già condiviso al momento! Grazie comunque della disponibilità e gentilezza Grant!