Dopo Lady Snowblood e L’età della convivenza, arriva in Italia un altro capolavoro di Kazuo Kamimura, che stavolta ci rende partecipi della vita di una donna divorziata messa ai margini dalla società.
“Le unghie crescono e spuntano da un corpo triste” è una frase del poeta giapponese Hosai Ozaki e non potrebbe esprimere meglio cosa succede all’anima di una donna che si ritrova sola, costretta ad affrontare la vita nella sua interezza.
Quando si nasce donne, si nasce già cariche di quella giusta dose di duplicità che ci accompagnerà per sempre, siamo per antonomasia esseri fragili – il sesso debole – abbiamo bisogno di un uomo accanto per completare il senso della vita e sembra che per tutto il tempo in cui siamo sole non siamo mai viste di buon occhio. Ma è davvero così? Veramente una donna necessita di una famiglia e di un uomo per sentirsi realizzata e completa?
Proprio noi esseri “delicati” sappiamo tirare fuori le unghie molto più degli uomini, ci facciamo carico di situazioni assurde e allo stesso tempo sappiamo che potremmo sostenere anche molto di più, non ci tiriamo indietro dall’apparire per quello che non siamo per raggiungere i nostri obiettivi e possiamo dimostrare un’indipendenza “felina” nei confronti di qualsiasi cosa o persona che ci obblighi a dei legami eterni. Eppure, sempre noi esseri “forti e indipendenti”, prima o poi cerchiamo un riparo, un posto in cui rifugiarci e dove poter apparire fragili. Magari tra le braccia di un familiare o di un uomo che sappia consolarci in quel momento, basta che sia qualcuno che in quel frangente possa capire ed accogliere la nostra parte di anima distrutta, permetterci di ritirare gli artigli per poi ripartire ancora più cariche di orgoglio.
La donna e la sua duplicità crescono insieme, si evolvono e si amalgamano a tal punto da formare un perfetto insieme imprescindibile.
“Quando si accendono le luci di Ginza, nascondiamo le lacrime sotto il trucco. Anche oggi il club delle divorziate è aperto”. Queste è la duplicità di Yuko, protagonista del volume. Il suo nome in caratteri giapponesi significa “figlia della notte”, è una donna divorziata da un marito fallito, un pianista di locali notturni tutt’altro che in salute. Il frutto di questo matrimonio è la piccola Asako, affidata alla nonna materna che vive in campagna, lontana dalla sua mamma che gestisce un locale di accompagnatrici e lontana dal padre a cui non è permesso di vederla.
Siamo nel Giappone degli anni ’70 quando tale situazione era tristemente comune, spesso il padre a seguito di un divorzio perdeva ogni contatto e rapporto coi figli. L’esclusione non prevedeva un sostegno economico, costringendo le giovani madri a rendersi padrone delle proprie vite, soprattutto sul piano lavorativo. Questo nella società dell’epoca era considerato un fallimento, la consuetudine voleva infatti che l’uomo fosse il percettore del reddito e che la donna dovesse occuparsi della famiglia, lasciando il proprio impiego una volta diventata moglie e madre.
Il quartiere di Ginza, centrale e modaiolo, rappresentava la vita notturna di Tokyo: lì non c’era posto per le mogli ma solo per donne che offrivano da bere a mariti in cerca di flirt e un femminile diverso da quello delle proprie case. Proprio in questi ambienti la duplicità delle donne era più viva che mai: le mogli si prendevano cura degli uomini quando si ammalavano, cucinavano per loro e li accudivano; le donne dei locali notturni invece vestivano in maniera vistosa e avevano un atteggiamento provocante, tra un drink e l’altro sembrava che non avessero mai avuto un approccio alla vita domestica. Ma non era così. Queste donne, seppur affermate, non facevano altro che cercare una conformità rassicurante, erano state derise e abbandonate dalla società e spesso si suicidavano per tornare come fantasmi a tormentare gli uomini del loro passato.
Così passa la propria vita Yuko: i suoi fine settimana sono tristi e insignificanti, si destreggia tra i tanti clienti di quelle notti cercando un concetto di amore scritto a lettere minuscole, ma fatto solo di flirt e dialoghi superficiali. Sopporta tutto questo mentre ricorda quell’unico uomo che le aveva insegnato a suonare la chitarra, quando viveva circondata dalla musica e dall’alcol. Nel frattempo, le cattive dicerie sul marito abbandonato continuano ad arrivarle all’orecchio in modo indiretto e il loro legame fatale si protrae interminabilmente, finché di lei non resterà che l’immagine di una schiena ben curata che non mostra mai un volto vero.
Le relazioni che finiscono ci rendono “inquinati”, pieni di tossine che fatichiamo a smaltire, ci fanno mancare il fiato, appesantiscono ogni nostro intento e, soprattutto, ci depuriamo da loro sempre con più tempo rispetto al previsto. È inesorabilmente vero che il tempo cura tutte le cose, ma gli effetti dell’inquinamento lasciano cicatrici su qualsiasi forma di vita, e le lasciano per sempre.
Kazuo Kamimura ha affrontato con delicatezza e armonia il tema del divorzio, come abbia fatto ad entrare così a fondo nell’animo femminile, descrivendo con sole immagini senza dialoghi gli stati d’animo di donne dilaniate dal dolore, resta per me (donna) un mistero. Nonostante sia scomparso da ormai oltre 30 anni, riesce ad essere un precursore dell’età contemporanea, facendoci allo stesso tempo rivivere un Giappone per certi versi perduto.
Dopo successi e capolavori come Lady Snowblood (Shurayukihime), L’età della convivenza (Dosei jidai) e Una gru infreddolita – storia di una geisha (Itezuru), la J-Pop pubblica Rikon Club, Il club delle divorziate. Questa è una serie pubblicata dal 1974 al 1975 sulle pagine della rivista Weekly Manga Action di Futabasha (la stessa di Lupin III e Lone Wolf and Cub) e si può certamente considerare un altro capolavoro sul tema della donna e della femminilità quotidiana.
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