Durante Lucca Comics & Games 2024, abbiamo avuto l’occasione di intervistare Giulio Rincione, autore della locandina per la seconda edizione di UmbriaCon e reduce dall’uscita del secondo volume di Dirt. Una chiacchierata da non perdere!
Dirt è una di quelle opere che ti incantano già solo con la copertina, calamitando il tuo sguardo con ciò che non vedi. Ecco cosa è successo a me, ed ecco perché era imprescindibile fare una chiacchierata con Giulio Rincione, che di quell’opera è il creatore, e che mi ha accompagnata in un viaggio alla scoperta di ciò che in Dirt si vede ma, soprattutto, di ciò che non si può vedere…
Intervista a Giulio Rincione, tra Dirt e i nuovi progetti
Ciao Giulio, ti ringrazio per essere qui con noi e inizio subito chiedendoti della tua ultima creatura, Dirt. Ne ho letto il primo volume e l’ho trovato davvero meraviglioso, in particolare per l’uso dei colori e il modo in cui li alterni a seconda di quello che stai raccontando: il bianco e nero dei ricordi, un seppia che pervade tutto il presente. Poi ci sono dei momenti clou in cui tutto riprende colore, anche Dirt stesso, come se tornasse ad avere quell’energia perduta. Qual è il ragionamento dietro questa scelta?
Dirt parte per essere una storia quanto più classica possibile, nel modo in cui è raccontata. È una storia particolare a livello di trama, però è chiaro che volevo rimanere quanto più canonico possibile. Come dicevi, abbiamo già smarcato la questione del flashback, che è sempre in bianco e nero; i toni seppia sono atmosferici, perché ci troviamo in un mondo post-pandemico – che quindi fa riferimento a un mondo post-apocalittico -, e ci vengono in mente questi deserti, scenari molto terrosi.
C’è però giustamente un’alternanza di scene, dove si va dal monocromatico al colore: quello in realtà ha a che fare molto con quello che devo andare a rappresentare, non tanto dal punto di vista narrativo in sé, quanto dal punto di vista tecnico.
Quando mi vado a impelagare in scene molto dinamiche, molto d’atmosfera, dove voglio che le luci e le ombre abbiano un maggior ruolo da protagoniste, scelgo sempre una monocromia/bicromia, in modo tale da poter gestire i chiaroscuri e gli effetti di luce al meglio; quando invece abbiamo una scena più conversativa, un pochino più estetica – come la chiamo io – allora mi piace tornare al colore delle cose.
Un po’ come se, nel momento in cui si va a movimentare la scena, si perdessero i colori, mentre i personaggi prendono molte più ombre e luci. Quando invece la scena è più “calma” o voglio dare un risalto puramente grafico alla cosa, ecco che i colori tornano in vita.
È una cosa che bene o male ormai faccio anche negli altri fumetti, però su Dirt questa cosa mi è fondamentale anche da un punto di vista psicologico: gestire un lavoro di duecento pagine effettivamente ti può portare a un certo punto a dire: “Oddio, devo fare altre centocinquanta pagine tutte alla stessa maniera”, mentre sapere che quella scena sarà fatta in modo diverso da quella successiva, è un trick mentale che ti fa sembrare di aver cambiato fumetto. Ti reinventi e quindi ti diverti di nuovo.
Si nota molto in alcuni momenti: in uno, in particolare, dopo tanto seppia, all’improvviso ci si trova davanti a uno spettacolare tramonto, pieno di sfumature.
Ti piacerà molto il secondo, allora, perché questa cosa nel secondo è ancora più presente.
A livello di stile, hai usato anche tecniche diverse da un punto all’altro del racconto?
La tecnica è principalmente digitale, per quanto riguarda la rifinitura. Però ho un rapporto molto stretto con l’analogico, quindi tutte le tavole sono comunque disegnate su carta, alcune sono anche con un buon lavoro fatto già di colore, tra acrilico e acquerello, che poi vado a regolare e sistemare.
Non cambia la tecnica finale, che per molte tavole è appunto digitale, però cambia l’approccio: in alcune scene vado molto dentro i contorni, cerco di essere un pochettino più educato, in altre cambio proprio il tipo di pennello e di pennellate. Ci hai visto giustissimo, e mi fa piacere anche la domanda sui colori, non me l’aveva ancora fatta nessuno.
A me piace fare domande diverse dalle solite. Per esempio, mi dici qualcosa in più di questo personaggio ibrido? Mi ha ricordato un po’ Balto: non è cane e non è coniglio, è un cartone ma ha comportmenti molto umani…
Diciamo che i cartoni animati hanno tutti uno spettro di sensazioni umane; li dovremmo immaginare un po’ come bambini, quindi in costante ricerca di attenzione, però bambini con superpoteri. Nascono per intrattenere, è il loro reale pane quotidiano. Quando un cartone mangia, beve, dorme, fuma, lo fa per imitare l’uomo; in realtà, non ne ha bisogno. Ciò di cui ha bisogno, e che lo tiene in vita – come viene anche spiegato nel libro, ndr – è il pubblico.
A livello di design, invece, Dirt nasce da uno scarabocchio che ho realmente visto. Era questa faccina sorridente con questi due capelli al lato, però i due capelli potevano anche essere delle orecchie da coniglio lunghe, perché in realtà si interrompeva l’adesivo. Queste linee andavano oltre e rimanevano tagliate, per cui poteva essere sia un coniglio che un cagnolino, anche perché in questo scarabocchio non ricordo se ci fossero i denti.
Ho voluto farlo un po’ ibrido, è un po’ un riciclo, anche perché doveva somigliare come rimando a tante cose: non so se ci sono riuscito, ma quando vedi Dirt hai la sensazione di averlo già visto da qualche altra parte. In realtà è perché è un insieme di cose già viste: un po’ di Roger Rabbit, un po’ di cani degli anni ’50 dei cartoni animati. È proprio per creare familiarità con il lettore.
Tra le altre cose, nell’introduzione dici che questo personaggio ti ha perseguitato “fisicamente” finché non ti sei messo a raccontarlo. Per te è sempre così? Nel tuo processo creativo, sono le storie che vengono da te o tu che devi andare a scavare per trovarle?
Sinceramente, è la prima volta che ho avuto un distacco così eclatante dal mio personaggio. Un po’ era già capitato con un mio vecchio fumetto, Paperi, però in quel caso i personaggi raccontavano in poco tempo delle sensazioni, quindi non si aveva modo di conoscerli e approfondirli.
L’ultimo mio fumetto prima di Dirt si chiama Condusse Me ed era l’ultimo di una serie di libri abbastanza personali. Non dico “autoriferiti”, però è chiaro che mettevo anche me al centro dell’attenzione. E l’ultima tavola di quel libro rappresentava una sorta di mio alter ego che usciva da una tela. Sapevo che quello sarebbe stato l’ultimo mio libro in cui avrei voluto parlare solo di sensazioni; sentivo il bisogno di raccontare una storia di fiction.
Così è nato Dirt.
È la prima volta che ho questa sensazione così netta e separata, e la voglia di scomparire in qualche modo nel mio lavoro. La cosa che mi augurerei più di tutte è che la gente conoscesse Dirt e non sapesse chi l’ha fatto; che dicesse: “L’ho letto, mi è piaciuto, l’ho consigliato, però aspetta, non mi ricordo il nome dell’autore”.
In qualche modo è una cosa bella, che va controcorrente nel mercato attuale, dove sembra quasi che l’autore voglia stare al centro della narrazione. Poi ci sta che, se l’autore fa una cosa mega-popolare, la gente lo voglia incontrare, ma sempre perché è legata al personaggio, non perché è legata ai fatti miei o a quello che faccio durante la giornata.
Questa è una cosa che dico spesso: io sono una persona assolutamente noiosa, come tante altre. La gente si deve interessare al massimo a quello che faccio, perché lo può trovare bello, interessante, orribile, però non ha senso questa forma di morbosità nei nostri confronti… “Ah, mi devo fare la foto con tizio e caio.”
L’obiettivo è farti innamorare di Dirt – o fartelo odiare – al punto da volerlo comunque sovvenzionare, e quindi io divento il tramite per il personaggio.
Nella storia, hai descritto un mondo estremamente crudele da certi punti di vista…
E non hai letto gli altri!
Ecco, ora ho un po’ di paura… Scherzi a parte, in Dirt hai messo tante cose: razzismo, discriminazione, questi cartoni che vengono trattati proprio come bestie da macello, appendici dell’essere umano, sfruttate come schiavi.
La critica, soprattutto nel primo volume, riguarda l’essere umano, che non è buono. Poi c’è una critica non tanto velata sul politicamente corretto e sul censurare le opere di intrattenimento. Io credo che un fumetto non possa fare del male, perché quando non ti piace più lo chiudi, al massimo lo butti, lo regali, te lo rivendi, e quindi sei, per fortuna, in grado di decidere quando censurarlo: basta chiuderlo. Vale per un film, lo stoppi, fine; vale per un libro.
La vita non è così. La vita, purtroppo, non si può censurare. Le cose più terribili accadono nel mondo reale, per cui non capisco questa volontà – quasi accanimento – di rendere la fantasia, l’ideale, “un posto migliore”, quando c’è il mondo reale che intanto fa veramente schifo. Quindi il mondo che racconto io non è un mondo crudele, ma uno che io percepisco come reale.
Il cartone animato, alla fine, è la metafora di chi è bisognoso sempre di attenzioni, di chi ha un potere e, di conseguenza, viene sfruttato. Il parallelismo è un po’ tra il cartone animto e l’artista, quella figura che ha qualcosa da comunicare e subito viene agguantata dai colletti bianchi per cercare di fare quanti più soldi possibile.
Quindi la sua poetica, il suo messaggio, viene strumentalizzato e quella persona smette di essere un libero artista, un libero comunicatore. Il cartone può rappresentare quello in una versione ancora più estremizzata.
Nel secondo volume, che non ti vado a spoilerare, ci sono anche delle critiche legate a quello che è il nostro rapporto con il mondo reale e social, quindi con tutto quello che viene regolamentato: i trend, le cose che ci devono piacere, la velocità, la frenesia, il fatto di voler essere quanto più possibile visti e apprezzati per un risultato, alla fine effimero e destinato a sparire.
Il fatto di essere succubi di un algoritmo che ci dice quello che dobbiamo fare per essere visualizzati un po’ di più, quando in realtà non è detto che sia quella cosa che volevi fare. Andrà avanti con queste critiche, che riguarderanno anche la religione. Ogni volume ha un po’ una sua tematica di critica localizzata, però poi si vanno a collegare, soltanto per dire che il nostro mondo dovremmo cercare di cambiarlo: lasciare i libri come stanno e cambiare invece le cose vere.
C’è un punto dell’opera in cui questa critica su come vengono trattati gli artisti la metti su carta: rappresenti un macchinario che letteralmente “succhia” idee direttamente dalla testa dell’artista…
Sì, c’è veramente una forma di capitalizzazione che velocizza il processo. Non c’è più il cartone animato. Il cartone animato nasce, e si crea questa esigenza di doverlo rendere reale, perché nel momento in cui può recitare, non bisogna più lavorare; è una forma di capitalismo e di schiavismo.
Pensi che qualcuno degli altri cartoni della tua storia avrebbe potuto essere rischioso o ribelle come Dirt?
No: Dirt rappresenta un po’ un unicum, in quanto è estremamente orgoglioso di essere un cartone animato. Nel momento in cui i cartoni diventano reali, sembra quasi che vogliano a tutti i costi compiacere le persone e somigliare a loro, cioè vengono convinti che essere umani sia una cosa bella, quindi si uniformano e provano ad avere quel tipo di sensazioni.
Dirt, da questo punto di vista, è abbastanza nazista, è molto “purosangue”. Lui è orgoglioso del fatto di essere un cartone e non capisce perché il mondo voglia andare in direzione opposta. Quindi penso che sia veramente l’unico. Magari c’è stato un altro cartone come lui, prima, ma è stato soppresso e non lo sappiamo.
Mi ricorda un po’ gli X-Men e tutta la storia della cura che elimina la mutazione… Perché farsi togliere qualcosa che ci caratterizza come entità?
Ci possiamo vedere una forma di conformismo: qualcuno decide che una cosa è bella e allora tutti cominciano a seguire quel filone, comprano oggetti, vestono in un certo modo. La domanda è: ti guardi allo specchio? Sei sicuro che ti piaccia quella cosa che hai preso? Ed è una domanda difficile da farsi. Non la sai più qual è la verità, ti sei convinto di quella roba e quindi diventa complicato.
Di tutti i lavori che hai fatto fino a qui, se dovessi sceglierne uno in grado di riassumere quello che sei come artista?
Dove sento più me stesso e dove sento di aver messo su la maschera da artista, non è la stessa opera. Dove sento più me stesso è Paranoie, libro del 2015: ero ancora esordiente e, per la prima volta, mi sono imbattuto in questa storia di oltre centoquaranta pagine. Per me era una sfida immensa, ma avevo bisogno di quella storia per parlare a me stesso e parlare agli altri.
Mi sentivo terribilmente solo, ma ero convinto di non essere l’unico a provare quelle sensazioni, quindi il fumetto è diventato non più un fine per emanciparmi come artista o per far vedere agli altri che c’ero, ma un mezzo di salvezza. Perciò quello è il libro a cui sono più legato, perché probabilmente senza non staremmo qui a parlare, sarei chissà dove. Era una cosa che mi ha dato uno scopo.
A livello artistico, sono sicuramente molto legato a Paperi, però in questo momento penso che Dirt sia molto più completo, pur avendo un sacco di cose che io non farei allo stesso modo, ma che sono in qualche modo costretto a diversificare anche per rendere più agevole e divertente la lettura.
Ha stili diversi, sfondi urbani e naturali. Alla fine della saga, che sarà composta da quattro volumi, si potrà dire che Dirt è una sorta di enciclopedia di tutto quello che so fare, perché in ottocento pagine c’è praticamente tutto quello che uno può immaginare.
Per il futuro, una volta finito Dirt, ci sono stili e tecniche diverse che vuoi provare? O un nuovo genere? Qualcosa che comunque sia “altro”.
In questo momento, nonostante il mio stile sia molto presente anche in Dirt, mi sento molto limitato perché ci sono tante regole e tanti paletti da rispettare. Quindi, su due piedi, ti direi che il fumetto successivo sarà un fumetto estremamente istintivo e libero. Una cosa a filo diretto tra mente e mano, dove dirò “ho fatto queste ottocento pagine di pratica, sganciamo il cane, fai quello che vuoi e vediamo cosa succede”.
Degli autori contemporanei, c’è qualcuno che ti fa dire: “Caspita, vorrei per un giorno poter disegnare con le sue mani, lavorare con le sue mani”?
Per un giorno sì, perché vorrei capire se, dopo averlo studiato per tanti anni, ci ho azzeccato. C’è un autore che si chiama Ashley Wood, un autore americano (o forse australiano), uno dei disegnatori che mi ha ispirato a fare le cose in modo diverso e mi ha poi indirizzato verso questo stile. Tant’è che le mie prime cose somigliavano molto a lui, le ho un po’ “scimmiottate” all’inizio; l’ho studiato e osservato per anni, e ancora oggi sono innamoratissimo di quello che fa lui, anche nella sua semplicità.
Mi piacerebbe essere un giorno lui per vedere cosa pensa mentre fa, e quali sono le scelte che lo portano a decidere una forma, una linea, piuttosto che un’altra. Ormai mi manca solo quello e dissezionarlo! [ridiamo]
Ringraziamo Giulio per il suo tempo e Tunué per la disponibilità; ci rivedremo presto a Umbriacon, e per allora saremo preparati anche sul secondo volume di Dirt!