J.M. DeMatteis, rinomato sceneggiatore di comics, ci ha concesso una lunghissima intervista dove ha parlato della sua carriera tra DC, Marvel e progetti personali. Ai microfoni di MegaNerd, l’autore de L’Ultima caccia di Kraven e Justice League International
Se il fumetto americano si è evoluto e rinnovato tra gli anni ’80 e ’90, lo si deve anche a J.M. DeMatteis. L’autore newyorkese di origine italiana ha affermato che il suo desiderio è sempre stato quello di fare lo scrittore e, al contempo, amava i fumetti sin da quando ne ha memoria. Unendo le due cose, John Marc è divenuto uno degli sceneggiatori più apprezzati del panorama fumettistico statunitense.
Il suo stile unico e peculiare contraddistinto spesso dallo scavare nella personalità e nell’umanizzare i personaggi di fantasia, lo ha portato a realizzare dagli anni ’80 in poi cicli intramontabili su eroi iconici come Capitan America, Lo Spettro, Justice League International, Spider-Man e molti altri.
È proprio su Spider-Man che John Marc ha realizzato due delle storie riconosciute dal pubblico e dalla critica come tra le migliori di sempre del Tessiragnatele: L’Ultima caccia di Kraven e Il Bambino Dentro. Ma non si riduce ‘solo’ a due storie l’incredibile carriera di DeMatteis.
L’indiscutibile talento dello scrittore e l’amore per personaggi complessi ha fatto sì che supereroi secondari nelle sue mani divenissero protagonisti di racconti entrati nella storia dei comics.
MegaNerd ha avuto il privilegio di poter ripercorrere, insieme allo scrittore, alcuni passi della sua incredibile carriera. Avremmo voluto e dovuto parlare di tantissime altre cose, ma il tempo è tiranno e le domande erano già molte.
Come sempre noi di MegaNerd speriamo che questa intervista piaccia tanto a voi leggerla, quanto ha soddisfatto noi poterla realizzare.
Ma ora tutti in piedi. La parola passa all’ospite di questa chiacchierata. Signori e signore, su MegaNerd è arrivato J.M. DeMatteis.
Intervista a J.M. DeMatteis
Grazie per essere qui con noi, John. Ricordi qual è stato il tuo primo contatto con il fumetto e cosa ti affascinava di quel mondo prima di entrare a farne parte come scrittore?
Non ricordo un periodo in cui i fumetti non facessero parte della mia vita. Penso che tutto sia cominciato con le strisce sui quotidiani. I giornali di New York avevano queste enormi pagine colorate della domenica con tante strisce a fumetti e le adorai dal momento in cui le vidi per la prima volta. Per quanto riguarda i fumetti veri e propri, sono cresciuto in un’epoca in cui erano sempre presenti, sempre disponibili, facevano parte della cultura dei bambini che crescevano negli anni ’60.
Detto ciò, penso che alcuni di noi abbiano una chimica cerebrale unica: vediamo quella combinazione di parole e immagini, una sostanza chimica si attiva nel nostro cervello, e siamo conquistati per tutta la vita da questa straordinaria forma d’arte. Qualcosa di magico accade nella nostra coscienza quando vediamo quella fusione di parole e immagini e quella magia non ci abbandona più.
Agli inizi della tua carriera ha lavorato in DC, ma il tuo desiderio era quello di entrare in Marvel. Cosa ti attirava, all’epoca, della Casa delle idee?
Il mio desiderio non era solo quello di lavorare alla Marvel. Il mio desiderio, prima di tutto, era guadagnarmi da vivere come persona creativa, in qualsiasi modo possibile. Ho sempre saputo, fin da quando ero bambino, che il mondo del lavoro dalle 9 alle 17 in un ufficio non sarebbe mai stato, e non poteva essere, per me.
E non volevo essere solo uno scrittore di fumetti, volevo essere uno scrittore, punto.
Ma i fumetti erano una grande passione e amavo sia la Marvel che la DC mentre crescevo. Sono stato entusiasta di entrare alla DC e iniziare la mia carriera lì. Al tempo in cui sono riuscito ad entrare, probabilmente la Marvel era più avanti, ma ho passato una buona parte della mia carriera andando avanti e indietro tra le due case editrici.
Avendo lavorato per entrambe le major del fumetto USA, quali sono stati gli autori veri e propri punti di riferimento del giovane scrittore J.M. DeMatteis?
Nei fumetti? Gardner Fox, John Broome, Jack Kirby (forse l’autore che più mi ha influenzato, tra tutti), Stan Lee, Len Wein, Steve Gerber, Steve Englehart, Denny O’Neil, Doug Moench, Jim Starlin. Per citarne solo alcuni!

Nel mondo più ampio della letteratura: [Ray] Bradbury, [Fëdor] Dostoevskij, Kurt Vonnegut, JD Salinger, Philip K. Dick, Charles Dickens, sempre per ricordarne qualcuno!
E non posso dimenticare Rod Serling e The Twilight Zone [Ai confini della realtà, serie TV di fantascienza n.d.r.]: mi ha molto influenzato.
Ho notato che nella tua lunga carriera ti sei occupato spesso di progetti riguardanti personaggi secondari. In tantissime occasioni, hai realizzato delle run o albi, che sono entrati di diritto nelle migliori storie di sempre proprio perché riesci a valorizzare il protagonista o i protagonisti (Es. I Defenders, Booster Gold, Guy Gardner, ecc..). Cosa ti spinge a dare il meglio proprio su questi eroi?
Più il personaggio è oscuro, più puoi renderlo tuo. Se stai scrivendo una storia della Justice League con Superman, Batman e Wonder Woman, avrai una schiera di editor e scrittori che osservano ogni tua mossa e inevitabilmente si opporranno a quello che hai fatto. Se invece uso [nelle storie] Devil Slayer e Son of Satan o Blue Beetle e Booster Gold, ho la libertà di giocare, di approfondire e ampliare i personaggi senza che nessun altro sollevi obiezioni.
Entriamo nel dettaglio di alcune tue opere: su Capitan America hai messo a nudo l’eroe a stelle e strisce. Steve Rogers si sente come mai prima d’ora, un ‘uomo fuori dal tempo’ nella società che sta cambiando e con essa anche le istituzioni che rappresenta, in cui non nutre più la fiducia che aveva un tempo. Per Capitan America, ti sei focalizzato sulle sue lotte interiori e sulla sua identità morale, per rendere il personaggio più umano e vicino ai lettori rispetto alle rappresentazioni tradizionali dell’eroe come simbolo di giustizia assoluta?
Bisogna dare il merito a chi di dovere: ho costruito [la mia run n.d.r.] sul lavoro che Roger Stern e John Byrne avevano fatto durante la loro breve, ma brillante, gestione. Loro avevano dato a Steve una vita civile, degli amici, e io ho preso quel materiale e l’ho sviluppato. Non vuoi che Capitan America sia solo un simbolo, vuoi che sia un essere umano in carne e ossa. Esplorando le sue relazioni con la sua ragazza Bernie, il suo vecchio amico Arnie Roth (un personaggio che Mike Zeck ed io abbiamo introdotto, uno dei primi personaggi apertamente gay nei fumetti), Sam Wilson e Jack Monroe/Nomad, siamo riusciti ad approfondire ed espandere il personaggio di Steve.
Non ho mai visto Cap come un simbolo di “giustizia assoluta“. Per me, rappresenta il Sogno Americano. Non la realtà, che, come tutti sappiamo, è spesso imperfetta e a volte molto oscura, ma le aspirazioni più alte al cuore dell’esperimento americano, che, a mio parere, non è limitato solo agli Stati Uniti. Cap, alla fine, rappresenta il meglio di tutti noi, indipendentemente dal nostro Paese di origine. Il nostro desiderio di vivere una bella vita, trattare gli altri con compassione, difendere ciò che è giusto.
Penso che le migliori storie di Capitan America esplorino quel divario tra il sogno americano e la realtà americana e, allo stesso tempo, facciano evolvere Steve nel suo percorso personale.
Passiamo a uno dei tuoi lavori divenuto un grande classico di Casa Marvel: L’Ultima caccia di Kraven. In questa splendida storia assistiamo alla battaglia forse più intensa della storia di Spider-Man, contro un personaggio fino a quel momento sempre relegato a villain di serie B: Kraven il Cacciatore. Riesci, in questa saga, a entrare nella psiche del personaggio come nessun altro aveva fatto sino a quel momento, e a dare tanta personalità e fragilità a Sergej Kravinoff, che in passato era sempre apparso come superficiale, virile e aggressivo. È il Cacciatore, quindi, il vero protagonista de L’Ultima caccia di Kraven?
Penso che la storia riguardi sia Kraven che Peter. Entrambi intraprendono un viaggio doloroso, ma Peter, dopo essere sceso in un inferno molto personale, trova la sua via verso la luce. Il viaggio di Kraven, purtroppo, porta alla tragedia.
Scrivi L’Ultima caccia di Kraven negli ultimi anni degli ‘80. Il concetto del supereroe era cambiato rispetto a quello della Silver e Bronze Age. Storie più leggere avevano lasciato spazio a trame più cupe e mature, basti pensare a Watchmen e The Dark Knight Returns. Lo stile e la trama che hai pensato per Kraven’s Last Hunt sono figlie anche del trand delle storie di successo di quegli anni?
Non in modo del tutto consapevole, ma quelle storie facevano parte dell’atmosfera creativa che tutti stavamo respirando in quel periodo, e sono sicuro che abbiano avuto un’influenza. Tuttavia, alla fine, L’Ultima caccia di Kraven era una storia profondamente personale, raccontata in un modo altrettanto personale. Gran parte dell’oscurità della storia derivava dal fatto che stavo attraversando un periodo difficile nella mia vita e, proprio come Peter, cercavo la luce. Non me ne rendevo conto all’epoca, ma ciascuno dei personaggi principali rifletteva in qualche modo una parte della mia psiche in lotta.
Ha aiutato a dare una maggiore drammaticità alla storia il fatto che Peter Parker indossasse il costume nero rispetto al classico rosso e blu? Te lo chiedo perché ci ho pensato spesso e probabilmente, a mio avviso, il costume classico non avrebbe provocato, almeno come impatto visivo, le stesse emozioni al lettore…
Assolutamente! Il costume nero ha contribuito al tono e all’atmosfera della storia. Avrebbe funzionato anche con il costume tradizionale, ma ha funzionato molto meglio con il completo nero. Tuttavia, il vero impatto visivo è merito di Mike Zeck e Bob McLeod. Mike è un maestro nel raccontare storie per immagini, e Bob ha aggiunto tantissima atmosfera alle sue matite. Erano un team incredibile e se non fossero stati loro a illustrare la mia storia, forse oggi non ne staremmo nemmeno parlando. Non potrò mai elogiarli abbastanza.
Passiamo per un momento alla DC e a Justice League International (JLI), che arriva in un momento molto importante per la casa editrice di Burbank. Si è da poco conclusa Crisi sulle Terre Infinite ed è ora di ripartire con nuove proposte editoriali. JLI è qualcosa di completamente originale perché presenta una formazione nuova, formata principalmente da outsider (più Batman) e ha un approccio non solo super eroistico, ma anche comico. Come nasce l’idea di proporre qualcosa di così diverso al pubblico della Justice League classica?
Non c’è mai stato un vero piano. Non ci siamo mai seduti a dire: “Facciamo una serie di supereroi comica.” È semplicemente evoluta in modo naturale, senza troppe riflessioni. Le trame di Keith [Giffen] avevano sempre uno strato di umorismo, io l’ho colto, e, cosa più importante, i personaggi ci parlavano (può sembrare folle, ma è vero) e ci hanno guidato in quella direzione. Poi l’umorismo è semplicemente venuto a galla da solo. Justice League International probabilmente non avrebbe funzionato se avessimo cercato consapevolmente di creare una sitcom sui supereroi.
JLI è un lavoro di sceneggiatura a 4 mani in quanto sei stato affiancato a Giffen, un autore molto apprezzato e dalla facile vena comica. Come è stato lavorare in due sullo stesso progetto?
Credo che ci voglia molta sintonia per fare qualcosa di buono… come avete fatto tu e Keith!
La chimica tra i creatori non può essere forzata. O succede, o non succede. Keith (che era una forza creativa straordinaria, non c’era nessuno come lui) e io ci siamo semplicemente trovati in sintonia in modo naturale. E abbiamo continuato a esserlo per trent’anni, fino alla nostra ultima collaborazione, Scooby Apocalypse [serie a fumetti DC ispirata al cartone animato Scooby-Doo n.d.r.]. Gran parte del merito per il successo di Justice League International va al nostro editor Andy Helfer, che ha messo insieme il team creativo e ha tirato fuori il meglio di noi. E, naturalmente, al grande [disegnatore n.d.r.] Kevin Maguire, il cui lavoro è stato semplicemente perfetto.
(nella foto DeMatteis, secondo da sinistra, e Giffen, primo da destra)
Qual’è il componente/personaggio della JLI che ti sei divertito di più a scrivere tra i tanti che sono passati nella formazione?
Blue Beetle e Booster Gold sono sempre stati un piacere da scrivere. Avevano una chimica magica che li rendeva unici. Adoro anche Martian Manhunter, è uno dei miei personaggi DC preferiti in assoluto. Ma, in realtà, ho amato la chimica tra tutti i nostri personaggi: Max e Oberon, Max e L-Ron, Fire e Ice, Ice e Guy, Ralph e Sue… e potrei continuare all’infinito. Però, se dovessi proprio scegliere i miei preferiti, sarebbero sicuramente Beetle, Booster e J’onn [Martian Manhunter n.d.r.].
Fantastici! Torniamo a parlare di Spider-Man, visto che hai lavorato su diversi progetti legati alla Saga del Clone. Come è stata vissuta da te e dagli altri scrittori questa run tanto spettacolare e complessa quanto controversa e poco apprezzata dalla critica? Premetto: a me è piaciuta moltissimo!
Il grande divertimento della Saga del Clone stava nella collaborazione. Poiché i fumetti erano tutti collegati, gli scrittori e gli editor si riunivano spesse volte nell’arco di poche settimane per definire le basi delle storie, un po’ come in una writers’ room televisiva [uno spazio in cui gli scrittori, solitamente di una serie televisiva, si riuniscono per scrivere e perfezionare le sceneggiature n.d.r.], e ci siamo davvero divertiti insieme.
Era un gruppo di creatori che si rispettavano molto e amavano la compagnia reciproca. Detto questo, alla fine mi sono stancato di scrivere il ‘secondo capitolo’ ogni mese. Sono più felice quando posso lavorare da solo, seguire la mia visione e raccontare una storia dall’inizio alla fine, quindi dopo un po’ me ne sono andato. (Anche se, in qualche modo, finisco sempre per tornare da Spidey!).
La Saga del Clone ha avuto la sua parte di problemi — per esempio, è durata decisamente troppo a lungo — ma al suo interno ci sono state anche alcune grandi storie. E Ben Reilly e Kaine sono due dei miei personaggi preferiti di sempre nell’universo di Spider-Man.
A proposito del fatto che Ben Reilly e Kaine sono i personaggi ragneschi che preferisci, la storia che più descrive il controverso rapporto dei due personaggi, per quanto mi riguarda, è Redenzione, vicenda toccante e drammatica. Cosa ti è piaciuto di Ben Reilly e di Kaine da dedicargli così tante storie di approfondimento?
Ogni personaggio è profondo e complesso. In molti modi, sono entrambi Peter Parker e, allo stesso tempo, le loro esperienze di vita sono state molto diverse e li hanno segnati profondamente. Li hanno cambiati. Ben ha combattuto attraverso l’oscurità, aggrappandosi alla luce al centro del cuore di Peter, mentre Kaine, che ha davvero sofferto per mano dello Sciacallo, si è perso nell’oscurità. Ma persino Kaine ha una scintilla della bontà di Parker dentro di sé, come abbiamo visto in Redemption [Redenzione in italiano pubblicata in origine su Uomo Ragno Deluxe da Marvel Italia n.d.r.] e in altre storie. Sono due personaggi sui quali potrei tornare ancora e ancora.
Cosa ne pensi della gestione di Ben Reilly e dell’evoluzione che ha avuto nelle storie recenti di Spider-Man?
Non ho letto quelle storie, quindi non posso esprimermi al riguardo.
Ultima domanda legata a Spider-Man: ‘Il bambino dentro’ viene citata come una delle migliori storie mai realizzate sul Tessiragnatele. Lo scontro finale tra Spider-Man e Goblin, tra Peter e Harry. Pensi anche tu che sia uno dei tuoi migliori lavori di sempre?
Sì, assolutamente. Amo tutta quella run con il grande Sal Buscema, soprattutto la saga di Harry Osborn, che si intreccia e si sviluppa nei nostri due anni di collaborazione. “Child Within” [titolo originale de Il bambino dentro n.d.r.] è una delle mie storie preferite in assoluto, insieme a Spectacular Spider-Man #200 [albo dove perde la vita Harry Osborn n.d.r.]. Ma, in realtà, amo tutta quella run. Lavorare con Sal è stato un sogno. È uno dei più grandi artisti che abbiano mai illustrato le pagine di un fumetto Marvel e anche una persona straordinaria.
Un altro personaggio secondario che hai rivitalizzato è Lo Spettro della DC Comics. Il tuo ciclo viene ricordato tra i più (se non il più) importante sul personaggio perché, ancora una volta, è una storia introspettiva ed emotiva ed analizza tematiche come l’isolamento e la redenzione attraverso gli occhi di Hal Jordan, ex Lanterna Verde. Come si prende un personaggio che ha un’identità ben definita come Hal Jordan e lo si reinterpreta sotto una veste diversa come quella dello Spettro?
Molti lettori, all’epoca, non erano contenti della nostra versione di Hal. C’era un gruppo che lo voleva di nuovo come Green Lantern e un altro che voleva il ritorno dello Spettro tradizionale. E io cosa stavo facendo? Una storia di redenzione che esplorava la natura della realtà, immergendosi profondamente nella metafisica e nella spiritualità.
Ma il cuore di tutto era il personaggio di Hal. Una volta che entri davvero nella sua psiche e scavi a fondo, le storie iniziano a scriversi da sole. Ho trovato il viaggio di Hal affascinante e Lo Spettro rimane una delle mie serie preferite. Sono felice di dire che, con il passare degli anni, sempre più persone mi hanno raccontato quanto quella serie abbia significato per loro. Mi piacerebbe vederla finalmente raccolta in un unico volume.
C’è un personaggio o un team di eroi che non ti hanno mai proposto, sia in DC che in Marvel, e su cui avresti voluto lavorare? O su cui magari hai lavorato per poco e avresti voluto scrivere una run più lunga.
Amo i personaggi soprannaturali della DC—ecco perché lavorare su fumetti come Dr. Fate, Spectre, Phantom Stranger e Justice League Dark è stato così divertente—e sono sempre felice di tornare in quel lato dell’Universo DC.
Per quanto riguarda la Marvel, ho sempre desiderato realizzare una serie dei Fantastici Quattro con Giffen e Maguire, ma quell’opportunità non si è mai presentata. Detto ciò, mi piacerebbe ancora scrivere una grande storia cosmica sui Fantastici Quattro. E non rifiuterei mai la possibilità di tornare a lavorare su Doctor Strange o Silver Surfer.
Oltre a scrivere fumetti, sei anche sceneggiatore di diverse serie TV e animate (Red Son, Adam Strange, Batman Caped Crusade, Teen Titans Go!, ecc..). Di queste ultime, alcune sono dedicate ai supereroi, a cui hai dedicato tantissimo tempo della tua carriera sino a oggi. C’è differenza tra scrivere la sceneggiatura di una storia a fumetti sui supereroi rispetto a quello di una serie animata?
Oltre alla differenza di formati, la principale differenza è che, nei fumetti, i tuoi principali collaboratori sono l’editor e l’artista, e lo scrittore può, il più delle volte, proporre una visione unica e molto personale.
(un frame dell’adattamento animato di Red Son a cui J.M. DeMatteis ha lavorato)
Nella TV e nel cinema, invece, fai parte di un team più grande con un’agenda specifica. Se, per esempio, accetto di scrivere un episodio di Batman Caped Crusader [della seconda stagione prossimamente su Prime Video n.d.r.], c’è già la stagione pianificata e una storia ben precisa che vogliono che io racconti, in modo che si inserisca perfettamente nella narrazione complessiva. Il mio compito è dargli ciò che chiedono e, allo stesso tempo, portare il più possibile di me stesso, della mia visione personale. Devo riuscire a renderla sia la loro storia che la mia, contemporaneamente.
Come qualcuno che passa la maggior parte del tempo da solo al computer, amo lavorare nella TV e nel cinema proprio per via della collaborazione.
Nel corso degli anni ho avuto il piacere di lavorare con sceneggiatori e produttori di grande talento come Stan Berkowitz, Alan Burnett, James Tucker, Jim Krieg, Dwayne McDuffie, Bruce Timm e molti altri. Ci sentiamo al telefono e passiamo un’ora o due a discutere le storie, scambiandoci idee, ed è davvero divertente.
Per uno scrittore come te che vive molto tempo da solo con le proprie idee e storie basate principalmente su personaggi di fantasia, come vivi il rapporto e il confronto con il lettore?
Da un lato, una volta che la storia è finita, io esco di scena. Diventa una relazione tra i lettori e la storia stessa. Alcune storie che considero tra le mie migliori potrebbero non connettersi con il pubblico, mentre altre, che magari non amo allo stesso modo, vengono profondamente apprezzate dai lettori. In un certo senso, tutto questo non ha nulla a che fare con me.
Allo stesso tempo, amo interagire con i fan. Come hai detto, passo la maggior parte del tempo da solo in una stanza, a giocare con i miei amici immaginari, quindi è davvero speciale andare a una convention, interagire sui social media e connettermi con le persone che leggono e apprezzano il mio lavoro.
Quando qualcuno mi contatta per dirmi che una storia in particolare li ha toccati o ha significato qualcosa per loro, mi emoziona profondamente. Per me ha lo stesso valore che ha per loro.
Ultima domanda obbligatoria: ci puoi dare qualche anticipazione sui tuoi prossimi progetti o su cosa stai lavorando attualmente?
Stiamo preparando tutti i volumi di DeMultiverse Fase 2 per mandarli in stampa in questo momento. Tutti coloro che hanno supportato il nostro Kickstarter dovrebbero riceverli tra qualche mese (più o meno). [A questo link tutti i dettagli sul DeMultiverse di J.M DeMatteis n.d.r.].
Ho appena finito la mia terza novel, Dark Future, per una fantastica compagnia chiamata NeoText, e dovrebbe uscire entro la fine dell’anno. (La prima storia è stata The Excavator e la seconda The Witness. Penso siano tra le cose migliori che abbia mai scritto. Entrambe sono disponibili su Amazon.com.).
Ho anche un nuovo progetto top-secret per Marvel che uscirà in autunno, un altro progetto segreto con Dark Horse, e alcuni divertenti progetti di animazione di cui, per ora, non posso parlare. Sono molto impegnato in questo periodo, e sono sempre più felice quando sono occupato!
Ringraziamo infinitamente J.M. DeMatteis per la sua disponibilità e per le incredibili risposte che ha dato alle nostre domande.