Durante l’ultima edizione di Lucca Comics & Games abbiamo avuto l’enorme piacere di scambiare quattro chiacchiere con Maicol&Mirco, uno degli Artisti più straordinari e geniali del fumetto italiano. Con lui abbiamo parlato di tutto: dei suoi Sarabocchi, ovviamente. Ma anche – e soprattutto – dell’urgenza di raccontare storie a fumetti
Avere ai propri microfoni un (grande) Artista come Maicol & Mirco non è un qualcosa che capita ogni giorno. E anche se – in qualche universo parallelo – dovesse capitare tutti i giorni, avrei una sola certezza: saprebbe come stupirmi ogni volta con dichiarazioni mai banali, con parole in grado di aprirti la mente.
Gli Scarabocchi di Maicol & Mirco sono un appuntamento ormai fisso per tantissimi di noi, un piacere irrinunciabile che ogni giorno ci sbatte in faccia le nostre meschinità, ma anche le nostre paure e i nostri dolori. Spesso ci fanno sorridere, sempre ci fanno pensare.
In occasione dell’ottavo volume della sua “Opera Omnia”, intitolato ZZZ, gli amici di Bao Publishing hanno invitato questo straordinario Autore a Lucca Comics & Games 2024 e – tra un firmacopie infinito e un altro – è riuscito a trovare qualche minuto per fare quattro chiacchiere con noi.
Signore e signori, su MegaNerd c’è Maicol&Mirco.
Popolo di MegaNerd eccoci qui, siamo sempre al Lucca Comics & Games 2024. Abbiamo un ospite veramente eccezionale questa volta: Maicol&Mirco. Benvenuto!
Ciao!
Che ne dici se per brevità ti chiamo solo Maicol?
Va benissimo.
Dunque, sei qui per presentare il nuovo volume de l’Opera Omnia, ottava raccolta di straordinari sketch che hai realizzato per il web e non solo. Come nasce uno “scarabocchio” di Maicol&Mirco?
L’Opera Omnia è un’opera “impossibile”, perché non è mai terminata. Gli Scarabocchi nascono in maniera disordinata, e questo è proprio un tentativo di dare un ordine al disordine. Chiaramente fallirà.
Bene! [risate]
I volumi sono leggibili separatamente, proprio perché sono raccolte. Ecco, un’altra delle difficoltà che ho nelle interviste è spiegare come nasce una cosa che per primo non so spiegare a me. Non per dare un’idea poetica del lavoro, però effettivamente il mio modo di lavorare deriva da una grande assenza, che è l’assenza di metodo.
Ogni Scarabocchio possiamo dire che è un modo di ripartire da zero nel fare il mestiere del fumettista. Come ogni pagina di questo libro.
Mi sono abituato a non avere nessun metodo e quindi ormai questo è diventato il metodo. Forse l’unico ordine che ho è di pretendere che esca uno Scarabocchio al giorno, ed è un rapporto quotidiano con la pagina finita, non con quella progettata. Perché un autore può lavorare sempre una pagina progettata, ma la mia idea è di fare “a cazzotti” con i personaggi quotidianamente.
Attraverso le tue vignette, questi Scarabocchi, veicoli messaggi anche molto profondi. Quando è nata l’esigenza di comunicare in questo modo?
È nata da una riflessione: il fumetto, più di tanti altri mezzi, ha la possibilità di raccontare cose profondissime in maniera molto semplice. Per questo si è imposto al largo pubblico immediatamente, dalla nascita. Una cosa che mi piace del fumetto è che ci sono delle cose che io posso disegnare e altre che non posso disegnare.
Quando c’è qualcosa che non so come disegnare, posso scriverla in forma di fumetto. Questo compensa una serie di cose sia dal punto di vista dell’autore che del lettore, e permette di raccontare quello che con altri mezzi sarebbe difficilmente raccontabile. Alla luce, o forse “al buio” di questo metodo, mi rendo conto che la vera Epifania per un autore è di non avere limiti nel raccontare.
Non serve pretendere che i personaggi siano “realistici” o che dicano cose “possibili”: la potenza del fumetto sta proprio nel poter naturalmente raccontare cose impossibili. C’è una rottura continua della quarta parete; c’è la possibilità di raccontare i personaggi senza attribuire loro volti, orecchie, naso o sfondi. Non si sa dove siano, da dove parlino i miei personaggi.
C’è questo nulla attorno che in realtà è un nulla che empaticamente crea un legame enorme tra il lettore e il disegnatore. E quando capisci che, con pochi passi, in un fumetto puoi fare tanto, è molto facile arrivare a un’opera come questa, piuttosto che a un tipo di fumetto pieno di segni e di linguaggio.
A proposito di questo: una cosa che salta immediatamente all’occhio è che più profondo è il messaggio che cerchi di veicolare, meno segni ci sono.
Forse l’unica cosa che mi impongo quando scrivo è di usare il meno possibile, che è proprio un mezzo, sia nel linguaggio che nel disegno. Ogni cosa possiamo dirla con meno parole e segni, e questo, nel fumetto, rende maggiormente. Quando si iniziano a fare fumetti si cerca di mostrare “i muscoli”. Siamo tutti più barocchi all’inizio.
Anche autori incredibili, come Moebius, che è partito con quel segno meraviglioso di “Blueberry”, è poi arrivato alla maturità togliendo. Più gli autori maturano, più tolgono. Non è questione di amare la sintesi o meno; è che ti rendi conto che la stessa cosa, con meno segni e meno linguaggio, la dici meglio.
L’economia del fumetto è fondamentale rispettarla. Rispettarne la grammatica, capire che stai semplicemente appesantendo il linguaggio e il disegno con parole che vanno solo a rovinare la comunicazione. Tanti autori, anche iperrealistici, si rendono conto autonomamente che meno cose metti più il lavoro funziona.
Più arrivi al cuore e alla mente del lettore.
Che poi il fumetto è un miracolo… Già devi guardare l’immagine e devi leggere contemporaneamente. È come se vedessimo la televisione sempre con i sottotitoli. L’occhio dovrebbe fare un balletto continuo.
Inoltre, noi non raccontiamo tutto, raccontiamo pochissimo. Lo spazio bianco mette in relazione una gamba alzata con una gamba abbassata e il movimento che produce la gamba è disegnato dall’occhio, quindi è tutta una questione di sintesi.
Anche quando abbiamo un segno iperrealistico, il fumetto lavora per sintesi, ed è normale che, avendo capito questo, io abbia cercato di sfruttarlo al massimo. Questo mi permette anche di raccontare più storie possibili in meno tempo possibile. È una cosa molto utile per chi ha un bisogno, un’urgenza, per così dire.
Io ho un milione di storie da raccontare, perché mi sono accorto anche di un’altra cosa: noi, come generazione, crediamo che le idee si esauriscano e che magari dopo un buon libro è difficile che segua un altro buon libro, o dopo un’opera prima, una seconda opera altrettanto buona. In realtà più scrivi e disegni, più le storie arrivano.
Anzi, a un certo punto devi arrivare a mettere un freno a questa invasione dell’ignoto, e questo mio modo di disegnare mi permette di raccontare i fulmini che mi attraversano la testa.
Hai un rapporto molto stretto con il tuo pubblico, visto che ogni giorno, dai loro il tuo Scarabocchio. Secondo te, il tuo lavoro arriva in modo diverso se pubblicato singolarmente online o sommariamente sulla carta?
Una cosa interessante dell’Opera Omnia è che non abbiamo voluto inserirci inediti, proprio perché è un’altra cosa. Ma poi il lavoro è inedito nonostante sia la raccolta di tutto quello che è già stato pubblicato su internet. Il fumetto, vivendo di tempo, in base a come viene presentato, cambia sostanzialmente il contenuto. Il tempo che passa tra una vignetta e l’altra modifica la narrazione.
La fruizione che hai sullo schermo è diversa da quella che hai sulla carta. Molte volte mi dicono: “ma questo non c’era”, “questo non l’ho mai letto”. Succede anche con i lettori assidui. In realtà non è vero; semplicemente, si presta un’attenzione diversa. L’opera su carta impone un’attenzione completamente diversa e, in un fumetto fatto di così poco, è in grado di modificare il messaggio, ciò che ti arriva e, soprattutto, la tua interpretazione.
Quindi si tratta di una lettura ex novo, anche se basata su vignette che già esistono.
Concordo. Da lettore, percepisci gli Scarabocchi raccolti nell’Opera Omnia in modo diverso.
Sì; poi la raccolta è consequenziale, quindi anche storie come queste, che nascono e si esauriscono nello spazio di una pagina, montate insieme danno vita a un’opera maggiore. Io non ho mai immaginato o percepito cosa significhi leggere tutte queste storie assieme, e quest’idea di universale che c’è nelle storie può nascere solo dal fatto che ho sempre lavorato nel particolare.
Come hai anticipato, sei iper-prolifico. In qualche modo ti sei dato questa regola, un po’ come Stephen King: “scriviamo tutti i giorni e vediamo cosa succede”. C’è qualcuno a cui fai leggere per primo i tuoi lavori?
Rimango il primo lettore delle mie opere. E, non per caso, anche nella forma di libro, di graphic novel come per Il papà di Dio, è epica nel senso di mille pagine. Queste opere nascono senza sceneggiatura, proprio per mantenere l’incanto della lettura, per cui la mia prima sorpresa è vedere cosa succede pagina per pagina.
Poi, nel tempo, ho delle persone che leggono, a cui mando i miei lavori. Uno dei miei lettori tester è Ratigher. Però questo nasce più dal piacere di condividere le cose, di mostrare qualcosa di ciò che faccio; non è parte del processo creativo vero e proprio.
Perciò non vieni influenzato dal giudizio di questi lettori-tester?
No, perché in realtà cerco di non farmi influenzare prima di tutto nemmeno dal mio giudizio. Mi piace mettere su carta solo cose che mi appaiono interessanti, e anche il valore di ciò che è interessante cambia da persona a persona, e cambia anche per te stesso, nel tempo.
Molte volte, quando esprimi le tue emozioni e sensazioni, o quando vuoi trasmettere qualcosa, poi metti la parola Fine, come a dire: “allora, io ho detto questo, e non voglio repliche”, “io ti sto dicendo questa cosa qua, fine”.
“Fine” è nato all’inizio, semplicemente per un meccanismo prettamente comico; nel senso che in una sola vignetta convivevano un accadimento e il suo opposto, e aggiungere subito la parola fine creava maggiore comicità. È come dare una doppia battuta e poi basta, finirla lì.
A un certo punto però fine è diventato una punteggiatura, proprio una virgola, un voltapagina, un punto di attenzione, di focalizzazione, ed è successo in maniera involontaria. Nasce però anche dal voler dire che ogni storia è un romanzo a sé, che è poi quello che adoravo nelle strisce. Ogni striscia di un volume dei Peanuts ha gli stessi ingredienti di un romanzo classico, come può essere Guerra e Pace.
Tanto noi non riusciamo a raccontare nessuna storia per intero, anche quando ci proviamo in un romanzo di formazione. E secondo me, ciò che passa è la storia per quello che interessa all’autore; per logica, anche ogni pagina dell’Opera Omnia è un libro e fine restituisce proprio quel senso.
Secondo te, l’arte in che modo deve dare fastidio, riallacciandoci a un’introduzione che ti ha fatto Colapesce nel precedente volume?
Emancipandosi anche dal voler dare fastidio. Quando crei qualcosa, devi essere cosciente che stai facendo qualcosa e basta, senza pretesa alcuna. La libertà vera nasce dal fatto di non voler nemmeno essere lì.
Carmelo Bene parlava dell’”abbandono”, del “dimenticarsi delle cose”, dimenticarsi della propria recitazione. Già decidere in questo momento che un fumetto deve essere scabroso o devastante o che debba nascere come invettiva, toglie spazio alla casualità che, secondo me, è una vera produzione divina, nel senso più ampio del termine.
Vorrei che nei miei fumetti succedesse quello che accade nella quotidianità. Noi stiamo facendo un’intervista, poi ognuno andrà per la sua strada, sapendo già cosa dovrà fare. Questo, in un libro, accade; mentre nella realtà subentra l’elemento casuale, per cui è possibile che io muoia attraversando la strada proprio per raggiungere il mio appuntamento.
Nei libri molte volte questo elemento viene rimosso. C’è molto più ordine in un libro, in una storia di fantasia – dove in realtà potrebbe accadere di tutto – che nella vita vera, dove le cose accadono a prescindere dalla volontà e dalle molte regole esistenti. Per paradosso, vorrei che nei fumetti succedesse che il lettore possa perfino morire mentre lo legge, o anche l’autore stesso. Più volte, non una volta sola.
Mi infastidisce, nelle opere che mi piacciono, riuscire a prevedere anche un minimo quel che succede. Vorrei che nelle mie storie non ci fosse ritmo o che fosse dettato dall’assurdo.
Una sorta di narrazione anarchica?
Sì, anche negli accadimenti. Amo le storie aperte, che non si concludono. Dove non c’è la morale, nemmeno nichilista.
Ti è mai capitato di rileggere uno dei tuoi Scarabocchi e pensare: “però forse questa cosa potevo dirla in modo diverso”, più o meno incisivo?
Mi è capitato di non ricordarlo; non per una questione di memoria, ma di novità. Nel senso che quando lavori in evocazione, cambiando tu cambia quello che leggi. Poi non credo ci siano messaggi o significati, e questo rende la lettura sempre nuova anche per me che sono l’autore. Solitamente, quando chiudo un libro non lo leggo più a meno che non sia costretto a farlo.
Però mi è capitato di rileggere degli Scarabocchi, mettendoli in ordine, e di non trovarli mai uguali. Questo mi capita anche con i film. Mi ritrovo a citare delle frasi che in realtà non hanno mai pronunciato in quell’opera, ma che mi sono state dettate proprio da quella visione. Per me è come se facessero parte di quel film, di quella scena, pur non facendone realmente parte, per un puro potere evocativo.
Secondo me, una grande opera deve “ribollire”, deve essere sempre diversa da sé stessa. Non c’è matematica nelle storie. Uno più uno nei libri dà sempre tre, quattro o cinque. Mai due.
Grazie davvero per essere stato con noi, Maicol.
Grazie a voi, a presto!
Maicol&Mirco
Maicol & Mirco è l’autore de Gli Scarabocchi di Maicol & Mirco, una comica tragedia quotidiana che da Facebook si è evoluta nella cartacea Opera Omnia (attualmente composta di otto volumi: ARGH, SOB, BAH, CRACK, NO!, PFUI, OPS, ZZZ). Ha dato una famiglia a Dio con il suo Il papà di Dio (2017) e deliziato i bambini con Palla Rossa e Palla Blu (2016) e Palla Rossa e Palla Blu rotolano ancora (2019), tutti pubblicati da BAO Publishing. Per Coconino Press – Fandango hanno realizzato il primo vero fumetto rosa del mondo: Hanchi Pinchi e Panchi (2009), Gli Arcanoidi (2018) e L’Arcanoide (2019), due “mostruosi” libri gemelli.
Per il progetto “Fumetti nei Musei”, in collaborazione con il MIbact ha realizzato due albi: Hanchi e il ladro sensibile in collaborazione con la Galleria Nazionale delle Marche e Gul: il cuore delle cose in collaborazione con la Reggia di Caserta. Ha inoltre pubblicato per Oggi, Sergio Bonelli Editore, Smemoranda, Linus, XL di Repubblica, Rolling Stone, Vice magazine, La Stampa, GBaby. Nel 2023 pubblica Natura Morta. Una domanda a Giorgio Morandi (24 Ore Cultura Comics) e nel 2024 Favole per psicoterapeuti (BAO Publishing). Dal 2023 i suoi Scarabocchi sono tutti i giorni sulla prima pagina de “il manifesto”. Insegna all’Accademia di Belle Arti L’Aquila.
Ha vinto il Premio Tuono Pettinato (2021), il Premio Piero Ciampi a Fumetti nell’ambito del Premio Ciampi (2023), il Premio Sergio Staino al Festival Antani (2024), il premio Giornalistico della Sardegna per Giornalismo a Fumetti (2024) e il Premio della Satira al Festival della Satira di Forte dei Marmi (2024). Un suo autoritratto è nella “Collezione di autoritratti” de Gli Uffizi di Firenze.