Un capolavoro del fumetto mondiale, un racconto forte, delicato, intenso, potente. Maus, la straordinaria testimonianza dell’orrore, un libro fondamentale che dovrebbe essere presente nelle librerie di ognuno di noi. Perché se comprendere è impossibile, conoscere è necessario
Parlare di un libro come Maus, non è affatto semplice.
Ma, d’altra parte, per il suo autore, Art Spiegelman, non dev’essere stato affatto semplice scriverlo: ha infatti impiegato vent’anni a realizzare quest’opera (riscrivendo per ben tre volte l’intera sceneggiatura), ha fatto viaggi in Europa, ha preso appunti, si è informato, ha fatto domande. Consacrato in modo unanime come un vero e proprio capolavoro e balzato immediatamente in testa ai più grandi libri di tutti i tempi, è stato il primo fumetto a vincere il Premio Pulitzer.
Maus è un libro che va letto, perché è la storia di due vite parallele, che come le proverbiali rette, non s’incontrano mai (o quasi): quella dell’autore, tanto geniale quanto auto-distruttivo, e quella di suo padre Vladek, ebreo di origini polacche, sopravvissuto all’Olocausto. Art ha passato la sua vita a cercare di confrontarsi con la tragedia vissuta dal padre, voleva in qualche modo tramandare la sua storia e ha pensato di farlo nel modo più potente, coinvolgente e penetrante che si potesse immaginare: con un Fumetto.
Camminando in bilico tra realtà e fantasia, è riuscito a realizzare un racconto autobiografico, che viaggia su diverse linee temporali: il presente, in cui l’Autore intervista suo padre (con cui ha un rapporto complicato, complice la forte personalità quest’ultimo), incalzandolo, stimolandolo con domande precise, facendosi raccontare la sua storia (e di conseguenza, quella della sua famiglia); il passato, in cui ci troviamo di fronte all’infame persecuzione nazista; e infine, non meno importante, il futuro, a cui – probabilmente – questa storia è dedicata. Perché se alcune cose oggi ci sembrano impossibili o addirittura impensabili, è grazie a testimonianze come questa: la memoria è il più grande potere che ci è stato concesso e sarebbe un delitto non usarla, soprattutto in questi casi. Quando in ballo c’è l’anima stessa dell’essere umano.
Spiegelman per raccontare una delle peggiori pagine della storia, sceglie di addolcire la narrazione usando degli animali dalle fattezze umanoidi (dunque antropomorfi): ecco così che gli ebrei vengono rappresentati come topi, sempre in fuga, i tedeschi come gatti (abili e instancabili cacciatori) e i polacchi come maiali.
Vladek inizialmente non ha molta voglia di raccontare questa storia: definirla una ferita sarebbe riduttivo, un’eufemismo che sconfina nell’insulto. Non vuole parlare, ma alla fine decide di condividere un fardello pesantissimo. Ricorda la dolcezza e la fragilità di sua moglie Anja, futura madre di Art. La gioia di essere una famiglia negli anni d’oro, di avere un figlioletto da crescere e un futuro tutto da scrivere… fino a quel giorno. Il giorno in cui cambiò tutto, per sempre.
Nel 1939 la famiglia Spiegelman viveva in Polonia, Vladek era un bel ragazzo che s’innamora della bella e giovane Anja: i due convolano a giuste nozze e dalla loro unione nasce il piccolo Richeu, primogenito della coppia. Sembrava tutto perfetto, finché la guerra non arrivò sulla soglia di casa loro: Vladek fu richiamato alle armi, dunque dovette partire immediatamente. Dopo un anno, in cui si ritrovò persino prigioniero, riuscì finalmente a tornare in Polonia, solo per rendersi conto che il mondo che ricordava era solo un pallido ricordo. La persecuzione razziale era una tragica realtà e ora gli ebrei non avevano più scampo: schedature, ghetti, deportazioni.
Il racconto ha un linguaggio tanto semplice quanto atroce: le parole di Vladek sono cicatrici che ci porteremo dietro per tutta la vita. Ci farà vedere i campi di sterminio, la tragedia nel separarsi da un figlio (e non vederlo più tornare), l’orrore di una persecuzione folle, insensata, infame, che non aveva e non ha ragioni di esistere. Ma c’è stata e non possiamo cancellarla.
Nella seconda parte del libro (probabilmente la più emozionante), Art Spiegelman si concentra – sorprendentemente – su sé stesso: essere il figlio di un sopravvissuto non è facile. Ricevere questo fardello, quest’eredità così pesante… non ce la fa. I suoi genitori hanno passato l’inferno, ma la sua vita è stata piena di turbe incredibili, che lo hanno portato più volte a guardare negli occhi la depressione più totale. I terribili racconti dei genitori e la personalità forte (e forse un po’ ingombrante) del padre avevano fatto sì che Art sviluppasse un profondo coinvolgimento interiore con la tragedia della Shoah. Da qui l’esigenza di raccontare, di liberarsi, di far conoscere a tutti non solo le terribili vicissitudini della sua famiglia, ma anche il suo stato d’animo. Spiegelman utilizza il Fumetto per trasmettere tutto questo ai lettori di tutto il mondo e per far sì che il suo messaggio giunga forte e chiaro, scrive e riscrive più volte tutta la storia. La butta, la ricompone, la cambia, fa altre ricerche. In modo ossessivo, preciso, puntuale, alla fine ci riesce, consegnandoci un libro magnifico, ma che probabilmente gli è costato troppo, forse tutto.
Maus cambia continuamente registro temporale con una maestria unica: alterna la vita di tutti i giorni all’orrore dei campi di concentramento; ci mostra il Vladek del passato (bello, forte, sprezzante) e quello del presente, con un fardello di ricordi troppo grande per chiunque. La cosa più interessante è ovviamente anche l’apporto grafico che Spiegelman ha voluto utilizzare: perché usare gli animali per raccontare una storia così triste e seria? Perché rappresentare gli ebrei come dei topi?
Perché questo era il linguaggio nazista. L’Autore vuole ricordare che era così che Hitler definiva gli ebrei nel suo Mein Kampf: ratti. In un (folle) passaggio, afferma addirittura che il popolo tedesco era «il nemico naturale di quest’orrenda infestazione». Spiegelman, in un’intervista, afferma infatti che «I simboli che uso per le diverse nazionalità in questo libro non sono i miei. Li ho presi in prestito dai Tedeschi (…) Il vero soggetto del libro è l’uguaglianza tra gli esseri umani. È una follia separare nettamente le cose con demarcazioni di carattere nazionale o razziale».
Certo che è una follia.
Un’orribile, insana e assurda follia.
Che qui ci viene raccontata con una scrupolosità unica, ripercorrendo le tappe della Storia, mischiandole alla vita di una famiglia che ha passato le pene dell’inferno. Usando le parole giuste, al momento giusto, con il disegno giusto.
Maus è un libro importante, da avere e rileggere spesso. È una testimonianza, una lettera importante indirizzata agli uomini e alle donne del futuro, che devono tenere ben presente il punto più basso, per provare a raggiungere il punto più alto.
Per Vladek, Anja, Richeu e Art.
Per tutti noi.