Riflessioni sulla 94esima notte dei premi Oscar: tra noia e ipocrisia, serviva uno schiaffo al sistema. Hollywood non sa più giocare (e sognare)
Will Smith vince l’Oscar come miglior attore protagonista e molla un ceffone a Chris Rock per una battuta infelice sull’alopecia della moglie Jada Pinkett. In un’edizione in cui l’Academy ha attribuito i premi utilizzando alla lettera il “manuale Cencelli” del politicamente corretto, una battutaccia ha scatenato la reazione violenta e politicamente molto scorretta di un vincitore (molto bravo, ma non il più bravo della cinquina) che a sua volta è stato ingranaggio della ripartizione “in quote” degli Oscar. Anche la macchina dei sogni si è ingessata attorno alle dicotomie “giusto/sbagliato”, “corretto/scorretto” e ha perso il metro della satira, dell’ironia sottile e brillante di un tempo (basti pensare alle annate con al timone attori del calibro di Billy Crystal, Woopy Goldberg o Ricky Gervais). Hollywood non sa più giocare nè incassare, non riesce a reinventarsi nè ad attrarre il vasto pubblico del passato. Abdica al regno dei sogni per calarsi mani e piedi nella complessità di quello reale.
Sia chiaro, cinema e società, celluloide e mondo reale non sono comparti scollati e indipendenti, ma l’indipendenza dei contenuti e la valutazione valoriale su di essi non può essere messa in discussione. Le battaglie sociali di attori e maestranze, da quella del MeToo a quella per il salario minimo, il grido di sdegno dell’intera industria nelle piazze del BLM o la sacrosanta partecipazione attiva alle battaglie GLBTQ non possono farsi metro conformista di giudizio sul contenuto delle opere in concorso. Dovrebbero, al contrario, essere linfa che alimenta i film da produrre, riflessioni da tradurre in immagini audiovisive capaci di far crescere culturalmente il pubblico e di svegliare l’opinione pubblica. Eppure, quella di Hollywood, suona più come una rinuncia a tutto ciò, in virtù di una personificazione di tali battaglie politiche sociali, adottando un metro di giudizio netto non nell’approccio ai prodotti, ma nella selezione dei premiati, facendo incarnare a loro stessi quelle caratteristiche di diversificazione, inclusione e coesione che dovrebbero al contrario essere veicolate dai film. Il paradosso è che, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei 2000 (per fermarci ad un passato recente) proprio la stessa regia degli Academy, spegneva i microfoni a Sean Penn e Susan Sarandon per aver stigmatizzato la pena di morte in mondovisione (allora candidati per “Dead Man Walking“) o a Michael Moore, per aver affrontato il tema del possesso di armi per difesa personale, condannandone presupposti ed effetti nel suo “Bowling for Colombine“. Un’industria ondivaga, dall’andamento bizzarro, insomma. Preoccupata dalla reazione dell’industria delle armi e di alcune frange repubblicane rimaste al medioevo dei diritti e, a un cambio di passo della politica e della società, abbottonata nel rispetto di genere, minoranze linguistiche, disabilità e marginalità sociali al punto da rendere la competizione sui migliori prodotti cinematografici dell’anno una sfilata impersonale di volti, quote rosa e riserve indiane, nelle quali racchiudere la propria inadeguatezza. La necessità adattiva ad incarnare ciò che tira l’opinione pubblica senza fare nulla per cambiare davvero. Per essere realmente inclusivi, magari aggiungendo alle categorie di premio, quelle per l’accessibilità audiovisiva (come chiesto da quasi un decennio dalle associazioni di categoria) o inserendo nelle cinquine pellicole audaci, meno patinate e autocelebrative, che diano vero contenuto ai temi di attualità e che segnano il nostro mondo. Viceversa, il risultato è sotto gli occhi di tutti. In una notte di film, paillettes e sogni, ciò che più resta è la perdita del senso d’ironia e l’incapacità di incassare, prendendo pugni come pugili suonati e ritrovandosi a vedere, come sole stelle, quelle da fumetto, che girano attorno alla testa del povero pugile e del povero pubblico.