Non solo vincitori e vinti, ma un’analisi ragionata su questa 95esima edizione della notte degli Oscar, sui meccanismi che muovono l’Academy e su tanto, tanto altro ancora.
Per quanto sia duro ammetterlo, fare le ore piccole dopo gli “anta”, costa una lenta e lunga ripresa. In questo tempo dilatato, quasi da hangover, gli impulsi del corpo e quelli della mente divergono inesorabili, lasciando sedimentare considerazioni, gioie e delusioni di quella che, malgrado tutto, non sarà mai “una notte come tante”. Perché, al di là di ogni lecita obiezione, gli Academy Awards restano i premi dell’industria cinematografica più prestigiosi e seguiti di sempre, nonché un viatico universale, per ravvivare la nostra promessa di eterno amore nei confronti della Settima Arte.
Negli anni scorsi, ci siamo soffermati spesso sul valore intrinseco da attribuire ai premi Oscar e su come dimensionarne il peso nel macrocosmo affollato e (molto) vario della produzione cinematografica mondiale. Le pellicole, premiate e osannate nella notte delle stelle, non rappresentano quasi mai un metro di giudizio universale – estetico e di contenuto – per i film usciti in sala (o su piattaforma) nell’anno solare precedente.
Tuttavia, se ci viene da storcere il naso alla sola lettura delle nomination, l’argomento Oscar non fa per noi. Meglio scegliersi una piccola sala periferica (se ancora si ha la fortuna di trovarne nei dintorni) dove sperare di scoprire perle inattese, magari proiettate in seconda visione. Non è con lo spirito del “cinefilo tutto d’un pezzo” che si deve guardare agli Academy Awards, ma con lo sguardo bambinesco e sognante che, almeno una volta, l’immensa industria hollywoodiana ci ha restituito.
Come detto, agli Oscar non arrivano i film più interessanti, bensì le pellicole più “salde”, sia in termini di produzione che di distribuzione. Film capaci di sfidare il vuoto che avvolge la maggior parte dei cinema e di far tornare a sorridere gli esercenti, oppure piccole opere (almeno all’apparenza), provenienti da ogni dove e tanto corazzate da giungere in ogni altro luogo del mondo, fino a trovare spazio “nelle sale giuste”, visto che non tutte lo sono per raggiungere l’agognato scopo di una candidatura.
E per sperare di vincere una statuetta, non basta certo essere autori promettenti, registi affermati, maestri poliedrici. La visibilità transcontinentale offerta dalla Notte degli Oscar richiede requisiti tutt’altro che artistici. Come saper intercettare il festival giusto, lo sponsor più adatto, la tempistica di uscita più agevole; il tutto per incasellare gli step necessari a tagliare il traguardo delle famigerate cinquine. Si tratta di una perfetta macchina strategica, esattamente come in una vera e propria corsa all’oro. Non a caso, quello lucente e vivo che modella le fattezze dello zio Oscar, quest’anno è finito (in gran parte) nelle mani della “A24” (“Everything Everywhere, All at Once” e “The Whale“) – casa di produzione giovane e intraprendente che strizza l’occhiolino a nerd e cinefili di ogni età e gusti – e di “Netflix” (“Niente di nuovo sul fronte occidentale“).
Prima ancora della distribuzione dei premi, ciò che colpisce di questa 95esima edizione degli Oscar, è la scelta – piuttosto plateale – dell’evasione data dal disimpegno. Dopo diverse edizioni in cui il premio veniva parcellizzato, per garantire il giusto peso ad ogni comparto sociale, e rispondere alle diverse sensibilità emergenti, l’Academy ha svestito i panni delle battaglie socio-mediatiche che aveva, in qualche modo, brandizzato. Basti pensare ai movimenti del “Mee too” e per la parità salariale, all’eco riflessa del “Black lives matter” o alle rivendicazioni della comunità lgbtq+ e piattaforme digitali (impegnate in una battaglia di autoaffermazione come ai prodromi di Hollywood tra le minor e le major). Anni di “pacificazione politica” dei premi, con un impegno talmente spinto da apparire, in molti tratti, “forzato”.
Negli anni ’90, a sollevare temi contraddittori per l’industria hollywoodiana, ci pensavano attori e autori (Sean Penn, Susan Sarandon, Michael Moore, per citarne alcuni), che sfruttavano la vittoria nella kermesse per dare voce a tematiche sottaciute, prendendo in contropiede gli organizzatori e alterando il carattere di puro intrattenimento dello Show. Per evitare imbarazzi, in alcune edizioni si scelse perfino di utilizzare microfoni a tempo, tagliando così ogni forma di “spontaneismo”. L’Academy, in modalità “protezionismo”, premiò film sempre meno politici, ripiegando su drammi collettivi interiorizzati, come per “American Beauty” e “Crash”; su tematiche non divisive nel mondo occidentale come per “The Hurt Locker” o “Argo” e incoronò blockbuster del calibro di “Titanic”, “Avatar”, “Il Signore degli Anelli” e il “Gladiatore”, musical quali “Chicago” e “The Artist” o film a sfondo sentimentale, come “Il paziente inglese”, “Shakespeare in love” o “The Millionaire”.
Dalla metà degli anni ’10 del 2000, l’Academy ha iniziato a virare verso un’interiorizzazione delle battaglie sociali e culturali che hanno scosso il mondo, “istituzionalizzando” il conflitto ed esercitandolo in maniera diretta, attraverso la crescente parcellizzazione di candidature e premi (della quale abbiamo accennato). Lo ha fatto “sceneggiando” le edizioni del premio, secondo dei “fili conduttori tematici” che hanno caratterizzato i candidati delle diverse categorie. Tutto ciò almeno fino a quest’anno, quando l’Academy of Motion Picture, ci ha sorpresi con un’altra virata, quasi a sancire il completamento del suo percorso di assorbimento delle spinte esterne. Lo ha fatto attraverso una sorta di rivendicazione del Cinema quale industria dei sogni e delle narrazioni sconfinate, rinunciando all’impegno, al conflitto e anche alla suddivisione pattizia dei premi.
A legare le dieci pellicole in gara per il titolo di miglior film, un unico punto in comune: quello della durata, mai inferiore alle 2 ore. Pellicole eterogenee, in buona parte appartenenti al segmento dei blockbuster, monumentali negli effetti visivi e portatrici di sentimenti individuali, più che di grandi temi collettivi. La sola differenza sostanziale è sul piano stilistico e ci permette di dividere i prodotti in due grandi blocchi. Nel primo rientrano: “Gli spiriti dell’isola”, “Women talking”, “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, “The Fablemens”, “Triangle of Sadness” ed “Elvis”. Pellicole che rispondono, con le dovute differenze, ai canoni della narrazione audiovisiva fondata sulla triade: sceneggiatura/regia/fotografia nonchè sulla tenuta delle prove attoriali.
Nel secondo blocco rientrano il pluripremiato “Everything Everywhere All At Once” e i tre sequel campioni d’incassi: “Top Gun Maverick“, “Avatar la via dell’acqua” e “Black Panther Wakanda Forever“. In questo caso, a farla da padrone, sono: la spettacolarità spinta all’estremo, la tracotanza degli effetti, i tagli sincopati, le scene d’azione mirabolanti e i trucchi, già divenuti iconici. E di questo blocco, distante dal cinema classico, ma decisamente in linea con la contemporaneità (digitale e virtuale), nessuno è rimasto a mani vuote. Le tre pellicole più amate dal pubblico escono dalla competizione con un Oscar tecnico a testa mentre il film prodotto dalla A24, conquista ben 7 statuette, le più “pesanti”, lasciandosi dietro una scia di perplessità, al di là dell’iniziale e piacevole sorpresa del film nel suo complesso.
Dubbi sul premio alla sceneggiatura, ad esempio, che esclude i dialoghi sostanzialmente perfetti de “Gli spiriti dell’isola” per incoronare la narrazione, non sempre liscia, di un multiverso convulso in cui dover (e poter) scegliere chi essere. Dubbi sulla miglior regia ai “the Daniels”, che taglia fuori quattro autori di “film di regia”, come dicevamo sopra. Altri dubbi, seppur meno profondi, riguardano il premio a Michelle Yeoh, magnetica e calata nella parte, è certo, ma in un contesto tanto corale e digitalizzato, da farla scomparire di tanto in tanto nel bagel nero e fluttuante creato dalla mente di Joy. E se “Tar” non è un film perfetto, vale l’opposto per la sua protagonista; una Cate Blanchett ispirata, monumentale, capace di toccare ogni registro e di attrarre lo sguardo come un magnete, senza trucchi né effetti.
Sono ormai passate oltre 24 ore dalla consegna dei premi. L’hangover è superato, corpo e mente camminano sullo stesso, sconnesso, binario. Si potrebbe dire molto altro sui film esclusi dalla competizione e su quelli relegati a meri partecipanti. Andrebbe analizzato il successo di “Niente di nuovo sul fronte Occidenale”, che guadagna ben quattro statuette senza mai essere passato per le sale, e ruba la scena a “Close” e “Argentina 1985”, film che insegnano, che riempiono occhi e menti. Si potrebbe parlare del fenomeno social “Naatu naatu” che strappa l’Oscar a Gaga, Rihanna e, soprattutto, a David Byrne o discorrere della diffidenza dell’Academy nei confronti di “Babylon”, dopo un battage promozionale di tutt’altra caratura. Potremmo discorrere per ore, insomma, senza mai trovare il bandolo della matassa. Volendo adottare il principio della circolarità del racconto cinematografico, per concludere questa riflessione, non possiamo che tornare a quanto affermato all’inizio.
Alla notte degli Oscar non si guarda da cinefili, né con la speranza di scuotere le coscienze. Lo si fa con leggerezza disillusa, consapevoli di assistere a un grande spettacolo autocelebrativo. Lo si fa per sentirsi parte di un sogno, anche se ormai ammaccato e decadente, a cui tutte e tutti abbiamo attinto (appassionati e non) e che, senza saperlo, ci ha insegnato qualcosa su ciò che vogliamo o non vogliamo essere. Lo ha fatto insegnandoci un linguaggio in cui le immagini raccontano storie eterne, senza il bisogno di scomodare un qualsivoglia multiverso.