Ricordo come se fosse ieri, la frustrazione che provavo da fanciullo nel dover essere costretto a fare a meno delle console videoludiche che tutti i miei compagni di scuola invece possedevano e la trepidazione con la quale attendevo quei pomeriggi, dopo i compiti of course, in cui poi finivo puntualmente nelle loro case, sperando di poter giocare con loro, sfida dopo sfida, livello dopo livello, boss dopo boss, joystick in mano, pane e Nutella e coca cola, vestendo i panni ora di Super Mario, ora di Sonic; Nintendo, Super Nintendo, Sega Mega Drive, Game Boy… Non faceva una gran differenza.
E allora, per la maggior parte dell’infanzia, ho avuto la fortuna di giocare ai miei giochi preferiti comunque. Ma c’era un titolo su tutti che avrei preferito possedere e che effettivamente ho approfondito troppo poco per i miei gusti e che più per il gioco in sé, quanto per la mitologia legata alla sua trama e ambientazione, mi affascinava particolarmente: Castlevania. Liberamente e “felicemente” ispirato alle vicende del Conte Dracula di Bram Stoker, il gioco creato dalla Konami (sì, quelli di PES) vedeva il suo esordio nel mercato Europeo, dunque anche in Italia, nel lontano 1987 e le sue trame cupe e gotiche riscossero immediato successo e consensi da critica e giocatori di tutto il mondo.
Ma veniamo a noi: Potete facilmente immaginare le aspettative che aveva il sottoscritto, visto l’ampio preambolo dedicato, quando è diventata di pubblico dominio la notizia che Netflix avrebbe prodotto una serie animata sul videogame in questione. Solo che il problema dell’avere delle grandi aspettative è che difficilmente esse vengono soddisfatte. E questo è esattamente il caso di Castlevania. Non fraintendetemi, non stiamo parlando di un’opera non all’altezza, piuttosto, ci sono molte cose apprezzabili nei (miseri) quattro episodi di cui è composta la serie, ma forse è l’eccessiva passione per il tema a parlare, dico forse, si poteva fare qualcosa di più.
Ma procediamo con ordine. Sin dall’inizio si nota una lodevole cura degli scenari e delle musiche. I disegni e le melodie che ci accompagnano nell’opening dell’episodio donano una sinistra magnificenza alle macabre immagini di scheletri impalati e corvi che svolazzano felici tra di essi e – contestualmente – c’introducono al meglio al nostro primo incontro con il Conte. Siamo in Wallachia (Romania) e Lisa, speranzosa medica del villaggio di Lupu, è alla ricerca della “sapienza segreta” di cui Dracula a quanto pare è custode, per poter aiutare e curare al meglio i suoi concittadini e – in generale – il mondo. Quindi senza difficoltà alcuna, entra nel castello del Conte e accade il disastro: Vlad Dracula Tepes appare e… Apre bocca.
Non so descrivervi al meglio la sensazione che ho provato nel sentire la voce di Raffaello delle Tartarughe Ninja (o di Yamcha di Dragonball, se preferite) ma vi assicuro che ho ancora la pelle d’oca. Non me ne voglia il buon Diego Sabre, ottimo doppiatore di CARTONI, ma in mia (personalissima) opinione, non ricordo una scelta così scelleratamente inadatta nell’accostare una voce a un personaggio da quando ho sentito Proietti doppiare Gandalf ne “Lo Hobbit“.
Tant’è che comunque, in una maniera che non ci viene mostrata, Lisa diventa la signora Tepes. Ora, inserito in un contesto dove la Chiesa la fa da padrona e governa il popolo con paura e superstizioni, è facile intuire quanto questa “scienza segreta” possa essere demonizzata, quindi la povera Lisa, in quanto donna di cultura, viene condannata per stregoneria e arsa viva, tra la soddisfazione del vescovo e le urla di giubilo dei popolani. Tutto questo scatenerà giustamente le ire di Dracula, pronto a liberare ogni sorta di bestia infernale con l’intento di sterminare l’umanità dalla Wallachia.
È qui che viene finalmente introdotto il protagonista, tale Trevor Belmont, ultimo discendente di una casata che combatteva mostri (?) in passato e che avrà l’arduo compito di fermare le bestie liberate da Dracula stesso. Il resto ve lo lascio guardare, anche perché sebbene presenti degli evidenti limiti nel raccontarci la storia, Castlevania si presenta comunque come un’opera “must see”. È vero, il tutto sembra avvenire troppo in fretta: la crescita dei personaggi per esempio, non viene raccontata né lasciata intendere. È improvvisa, netta. Lo stesso Belmont si presenta come un nichilista misantropo reietto e in troppo poco tempo si trasforma nell’eroe che salva la fanciulla dal mostro senza dare apparenti o sufficienti motivazioni. Ma questo immagino lo si debba al fatto che raccontare tutto in quattro episodi da poco meno di venti minuti ciascuno sia impresa quasi impossibile.
Il doppiaggio non è agghiacciante, ma indubbiamente non è all’altezza. Ed è un peccato perché i dialoghi sono tutt’altro che banali. Basti pensare che nella versione originale Dracula è doppiato da Graham McTavish (Dwalin ne “Lo Hobbit“) e Richard Armitage (Thorin Scudo di Quercia, sempre ne “Lo Hobbit”) presta la voce a Belmont. Peccato dicevo, perché comunque si tratta di un’opera evidentemente sottovalutata dal mercato italiano e che sicuramente necessitava di qualche attenzione in più, a livello di trasposizione, avendo comunque un target adulto. Ma ci sono certamente degli aspetti molto intriganti che vale la pena sottolineare: lo stesso Dracula sembra essere stato concepito come il male verso cui poi la trama e gli eventi convergono, ma ad una più attenta analisi, si percepisce continuamente che alla fine la malvagità risiede nell’uomo e che sia quella alla base, la vera crudeltà da estirpare.
Molto apprezzabili sono anche i fedeli riferimenti al videogame (armi e personaggi) come fruste e acqua santa, ma soprattutto la presenza di Alucard. Insomma, per quanto la narrazione risulti singhiozzante e troppo “concentrata”, ci sono degli aspetti che rendono Castlevania intrigante e merita sicuramente di essere visto, magari con più cautela del sottoscritto.
Voto 6.5