La seconda stagione di After Life riprende esattamente dopo gli eventi cui abbiamo assistito nel primo arco narrativo, riallacciandosi ad una scrittura che continua ad avanzare, portando avanti tutte quelle strade che abbiamo visto prendere forma precedentemente
Negazione, Rabbia, Elaborazione, Depressione e Accettazione: notoriamente, le cinque fasi del lutto come le conosciamo.
Poi arriva Ricky Gervais, prende questa lista e la getta nel cestino della carta, salvo poi ripescarla, che sai mai possa servire.
Su Netflix è arrivata la Stagione 2 di AFTER LIFE, e una sfida attendeva al varco il comedian e sceneggiatore. Riuscire a replicare, senza snaturarla, la medesima qualità con cui ci aveva incantato la prima volta.
Perché ridere della morte non è cosa facile, così Gervais non ci prova neanche, riuscendoci appieno. Ridere con le lacrime.
Perché la vera forza di After Life sta in questo: mostrarci un uomo e il suo modo di affrontare il dolore, con cinismo e disincanto della vita, una depressione mascherata da battute sarcastiche e umorismo nero, ma in fondo, nascosto sotto quel grugnire e sbuffare, un uomo, un uomo che soffre e con il quale, nella maniera più assoluta, poter empatizzare.
E After Life 2 riprende proprio da questo: da quel punto del cammino in cui ci eravamo lasciati la prima volta.
Per molti poteva dirsi conclusa, ma Ricky Gervais sapeva di avere ancora qualcosa da dire, qualcosa da mostrare con il suo Tony, uno dei personaggi più intensi tra tutti quelli da lui messi in scena (secondo forse solo a Derek).
E poco importa se le regole di Hollywood vogliono che, quando un protagonista affronta un lutto, questi al termine della storia, magicamente, ritrovi la voglia di vivere e andare avanti.
Gervais lo sa, noi in cuor nostro lo sappiamo: la vita non funziona così, non arriva il titolo di coda salvifico e qui torniamo un poco a quella lista che vi ho proposto all’inizio.
Così, vero come la finzione, ritroviamo Tony che, giorno dopo giorno, cerca di continuare la sua vita, cerca di aggrapparsi alla routine e ai rapporti personali che lentamente sta cercando di ricucire già dalla fine della scorsa stagione. E come accade nella vita vera, ogni giorno non è mai uguale all’altro, ogni giorno è una strana incognita quando si soffre del male di vivere: ci sono giorni buoni, giorni cattivi, giorni in cui ti sforzi di sorridere, alzando una facciata alta e fiera come uno scudo, e altri in cui quello scudo pesa una tonnellata e lo porti a fatica, salvo poi cedere.
Ma non pensiate che After Life abbia perso il suo equilibrio. Anzi, la sua corrente alternata migliore, quel caustico e surreale ritratto della vita degli altri, è ancora lì, e assesta alcuni dei colpi migliori della stagione tutta proprio nelle nuove stranezze degli abitanti di Tambury.
Che deve essere proprio una comunità molto sui generis, a vederla da lontano, tra uomini che imbucano lettere nella cassetta per i bisognini dei cani a idraulici di 50 anni che di colpo scelgono di identificarsi con bambine di otto anni, trecce e completino inclusi.
Certo, manca l’elemento novità, ma Gervais riesce a sopperire appieno, dimostrandoci che è la Vita la vera protagonista di questa storia.
La storia di un uomo buono, che ha perso ciò che secondo lui lo rendeva tale, e che noi seguiamo sullo schermo, con quegli occhi che diventano come il riflesso sullo specchio.
Ma il vero personaggio chiave è la Vita, che quando entra in scena dimostra di essere il Deus Ex Machina per eccezione, quello che ama scombinare le carte, quello che rende imprevedibile e fuori da ogni circuito questo nostro alzarci dal letto la mattina.
E in After Life 2 la Vita entra in scena con quella sua naturalezza figlia solo dei bravi sceneggiatori, quelli che sono ispirati, quelli che, forse e dico forse, sanno in prima persona ciò di cui stanno raccontando.
Non che in tutte le sue opere Ricky Gervais non ci abbia messo del suo, un piccolo pezzo di esperienza personale. Penso ad esempio a quella che rimane la mia preferita, “Extras”, sferzante viaggio nel mondo delle comparse cinematografiche, quelle che rimangono sullo sfondo e non sfondano mai come le grandi star a cui aspirano costantemente.
Ma era tutto immerso nel cinismo e nell’umorismo nero, quello che Gervais riversa anche nei suoi stand up teatrali. Un marchio di fabbrica che sicuramente l’ha reso inviso e amato in egual misura (la direzione artistica degli Emmy sa esattamente di cosa sto parlando).
Un cinismo che come spettatori apprezziamo oppure no, ma comunque a debita distanza da noi, lasciando che spettacolo e fruitore rimangano due cose distinte, inequivocabili.
In After Life no. Lo scrittore e attore trova un equilibrio straordinario, trova il modo non indifferente di portarci dentro questo microcosmo e farci sedere sul divano accanto a Tony, o su una panchina al cimitero, se preferite.
Lo fa con gli sguardi da consumato caratterista, lo fa con quei “Fu***n’ Hell”, lo fa quando si rapporta ai suoi colleghi del giornale, lo fa quando la camera induce sugli sguardi di questi ultimi, su come Tony passi dal non considerarli che ombre sfocate nel grigiore a notarli con più attenzione, scorgendo che, anche gli altri, pur se non lo danno a vedere, hanno le loro grane quotidiane con cui venire a patti.
Ma siamo esseri umani, lo è anche Tony, lo è sopratutto Tony, e allora ecco anche quel lieve egoismo che emerge ogni tanto, quel piangersi addosso che è così vero, così reale, così da buco nel petto.
Arrivando all’ultimo episodio con una considerazione che diventa importante in un modo tutto nuovo: alle volte fa bene piangere.
Sfogarsi, aprire le dighe e lasciare che le lacrime arrivino leggere, liberatorie, proprio come accade mano mano che si guarda questa Serie TV, sei episodi che si bevono d’un fiato. La senti che spinge, la senti che è pronta a devastarti, e allora ti arrendi e scoppi nella commozione, quella più sincera.
E quando spegni lo schermo, quando lo sguardo nel riflesso nero del televisore incontra il tuo ancora solcato dalle lacrime, capisci quanto, ancora una volta, Gervais abbia fatto centro come autore.
Alle volte, fa bene piangere. E no, – almeno questo posso spoilerarvelo – al cane non succederà nulla, tranquilli!
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