American Primeval è un gioiello da non sottovalutare. La miniserie Netflix ambientata nel vecchio West riesce a raccontare una storia appassionante, con il giusto ritmo e una profondità incredibile. Sei episodi che raccontano l’Odissea di una Madre e un Figlio, impegnati in un viaggio che sa di fuga, mentre sullo sfondo la Storia degli Stati Uniti d’America si presenta senza filtrare le umane miserie, cattiverie e pochezze in nome del potere sugli altri e della sopravvivenza.
Destino Manifesto.
Il fascino della Frontiera, quel genere che, per comodità definiamo “Western“, ma come spesso accade si presta a spiragli più ampi, è qualcosa che, saputo maneggiare e presentare, può trasportare lo spettatore verso narrazioni cupe, drammatiche, ben lontane da quel tratto “romantico” fatto di pistoleri, avvisi di taglia e duelli a mezzogiorno che talvolta e comunenente si porta dietro, non più capace, secondo alcuni, di attrarre pubblico.
Ci sono sempre dovute eccezioni però, e di recente, in accezioni più “moderne”, il genere pare aver ritrovato forza, complici produzioni come “Yellowstone” e relativi spin-off.
Neanche Netflix si è dimostrata immune a questo fascino, e tralasciando i film, basti solo citare la splendida – e sottovalutata dalla massa – “Godless“, con un ottimo Jeff Daniels.
Al novero, si aggiunge ora un’altra miniserie, AMERICAN PRIMEVAL, da poco sbarcata sulla piattaforma, con sei episodi, tesi, neri come l’anima di molti dei personaggi che la popolano, una vera e propria Odissea di una madre e un figlio, impegnati in un viaggio che sa di fuga, mentre sullo sfondo la Storia degli Stati Uniti d’America si presenta senza filtrare le umane miserie, cattiverie e pochezze in nome del potere sugli altri e della sopravvivenza.
American Primeval conquista la mente e il cuore
La dirige un ritrovato Peter Berg, che si è ricordato essere il regista di film come “The Kingdom“, e la scrive uno che l’argomento lo conosce a menadito, ossia Mark L. Smith, la cui penna ha firmato quel “The Revenant” che è valso l’Oscar a Leonardo DiCaprio.
Berg è partito dal suo interesse per il famigerato “Mountain Meadows Massacre“, ha contattato lo sceneggiatore, solo per scoprire che questi aveva già alle spalle tutto un lavoro di ricerca non indifferente su quel periodo storico (parliamo del 1857).
D’altronde, in “American Primeval” appare la figura, realmente esistita, di Jim Bridger (interpretato da Shea Whigham), che nella pellicola succitata è ancora solo un ragazzo.
Non solo: i due si sono avvalsi di tutto un team di esperti, che li hanno guidati in ogni passo di questo cammino, per garantire alla miniserie quanta più verità storica possibile, senza però dimenticare il puro piacere della narrazione e dello “spettacolo”.
Basterebbe citare il “Massacro” di cui sopra, al centro di una sequenza del primo episodio così piena di ritmo, movimenti di macchina e lavoro di coreografia, da meritare l’applauso (per quanto si possa “applaudire” una simile rappresentazione di violenza).
Ma torniamo alla Madre e al Figlio di cui dicevo prima, interpretati da Betty Gilpin (attrice che meriterebbe maggiore attenzione, lasciatemelo dire, e negli ultimi anni, tra “Glow“, “Gaslit” e “Three Women“, lo ha dimostrato ampiamente) e il giovane Preston Mota.
I due sono in fuga da un passato violento e diretti verso la città in cui vive il padre del bambino: Sara non perde la sua posatezza ed eleganza, ma ha bisogno al più presto di trovare una guida in mezzo a quella natura ostile, qualcuno che li accompagni a destinazione e che conosca quelle terre come il palmo della propria mano.
Quell’uomo è Isaac Reed, spezzato dal lutto e pieno di cinica disillusione, a cui presta una ruvidezza non da poco il bravo Taylor Kitsch, che mi fa piacere ritrovare in formissima e che si riunisce qui con Berg, forti dei loro trascorsi con “Friday Night Lights” e “Lone Survivor“.
Così i tre partono per un viaggio che cambierà i loro destini, le loro prospettive di vita, scoprendo lati di sè stessi che non pensavano di possedere, vedendo cadere come tessere del domino sin troppe illusioni e preconcetti, muovendosi tra insidie e pericoli pronti a celarsi dietro ogni ombra, mentre intorno a loro, in una morsa che corre in parallelo, la Storia fa il suo corso, mostrando i conflitti tra Culture, Religioni e Comunità, rappresentati da Nativi, Pionieri e Mormoni, dove nessuno è veramente il buono o il cattivo.
Anche qui, un esempio per tutti: Brigham Young (Kim Coates), leader spirituale anche lui realmente esistito, mosso da interessi terreni quanto celesti.
E visto che stiamo nominando gli interpreti, impossibile non riservare menzione al resto del cast, per rendere chiaro come, anche da questo punto di vista, “American Primeval” metta a segno delle belle ed interessanti prove attoriali: Dane DeHaan, Saura Lightfoot-Leon, Derek Hinkey, Joe Tippett, Jai Courtney, Shawnee Pourier e Lucas Neff.
Il risultato di tutto questo è una miniserie densissima, dove ogni episodio va approcciato con attenzione e il giusto stomaco. Sara e suo figlio sono a loro volta la nostra di guida in questo tomo storico a tratti difficile da mandare giù, tanto è drammatico e duro.
Persino la Natura sceglie di essere fredda, decisa a non fare sconti ai nostri protagonisti, ammantando quei boschi di neve, di dure rocce, dimostrandosi poco amena, metafora di una terra che solo i più forti e prepotenti riescono a predare, dove sopravvivere è tutto, ed in fondo, è un sentimento che unisce e divide, indipendentemente dal colore della pelle.
Forse anche per questo, quei pochi personaggi che rappresentano una piccola luce di speranza, risaltano in un modo per cui, inevitabilmente, provi affezione, provi un interesse che va oltre la semplice narrativa, e ti ritrovi preoccupato e timoroso di colpi di coda non graditi prima dei titoli finali.
Pochi, ma ci sono, perchè questa è una storia di sopraffazione quanto di sopravvivenza, appunto, e per entrambi c’è chi è disposto a pagare un prezzo altissimo, in nome spesso di una Legge che dovrebbe essere cieca… ma solo perchè qualcuno le ha cavato gli occhi.
Ogni puntata è corposa, ed approcciare la visione con la solita logica del “bingewatch” qui è più deleterio che mai: a differenza di Sara, infatti, nessuno vi insegue, e in quella inesistente gara a chi corre per primo sui social a vantarsi di averla vista, in questo caso, a perderci è probabilmente sia l’opera che lo stesso spettatore.
Con questo, beninteso, non sto dicendo che “American Primeval” sia lenta o noiosa, anzi. A parte qualche leggero calo, perdonabilissimo, nel tratteggiare alcuni passaggi e personaggi, la narrazione fila dritta come un fuso, e la tentazione di divorarla non manca.
Però appunto, c’è davvero tanto da processare, da apprezzare, anche per meglio cogliere le sfumature offerte dalle interpretazioni: l’abisso di solitudine e dolore che circorda Isaac, a cui Kitsch presta una rabbia silente, una scorza forgiata da battaglie il cui racconto si perde nel solco delle sue cicatrici.
Quell’atteggiamento, tanto naive quanto presto destinato ad essere soppiantato da quella determinazione che riescono a possedere solo le donne, di Sara, che la Gilpin rappresenta con quella resilienza di che sceglie di non arrendersi, sia all’immagine da “Jane Eyre” che pare voler presentare al mondo, sia a chi vorrebbe piegarla. Lei ha una missione, e suo figlio è tutto ciò che conta, andando incontro ad un destino incerto, anche a costo di maledire il cielo per raggiungerlo.
La pazzia, pura e semplice, in cui cade un ispirato DeHaan, i duelli verbali e di carattere tra Whigham e Coates, a dimostrare quanto maiuscoli sappiano essere come attori.
C’è poi la mai troppo sottolineata Storia, quel perdersi in una ricostruzione ben fatta, che vive di paesaggi e di un’atmosfera precisa, lontana dai dipinti ad olio da festa del Ringraziamento, quanto piuttosto più vicina ad un disegno fatto con china e carboncino, tratteggiato e ricco di ombreggiature, più vivo, reale, importante persino, rispetto alla semplice elencazione di eventi di un libro di scuola.
Una somma di cose che mi portano, e non volevo fosse altrimenti, ad elogiare questa produzione Netflix.
Una di quelle che, per quanto si possa apprezzare la leggerezza di tanto del catalogo della piattaforma, finiscono per essere quella boccata d’aria fredda di cui sentivi il bisogno e che ti fanno desiderare quel tipo di Qualità che alle volte capisci mancare nella grande N e che ti spinge a guardare altrove, tipo Mele, Monti e HBO (spiacente, non avevo metafore per lei).
Ecco, “American Primeval” è una di quelle serie, di quelle che ti soddisfano, che rimangono anche a visione conclusa, perchè senti che ti hanno lasciato qualcosa.
Che sia il piacere di un bel racconto, che sia l’aver trovato una nuova opera da consigliare se si è appassionati del genere, che sia l’aver visto interpretazioni mirabili, che sia quella forte curiosità che ti spinge ad andare in libreria o biblioteca e documentarsi, facendo scoperte nuove, che inevitabilmente, ti arricchiscono.
Magari, più semplicemente, queste cose tutte insieme!
American Primeval
Taylor Kitsch
Betty Gilpin
Dane DeHaan
Saura Lightfoot-Leon
Derek Hinkey
Joe Tippett
Jai Courtney
Preston Mota
Shawnee Pourier
Shea Whigham