Dylan Dog 461 – Il Grande Freddo

recensione Dylan Dog 461

Anche questo mese, la storia che vede protagonista Dylan Dog è atipica. Nello stile, nel respiro, nella linea. La sensazione è quella di trovarsi di fronte ad un nuovo corso, più sperimentale, di cui Il Grande Freddo è un ottimo epigono. 

La sola cosa che non si può giustificare di questo albo, è il titolo. Per gli amanti del cinema, Il Grande Freddo richiama troppo da vicino l’omonima pellicola di Lawrence Kasdan, per non trovarci nessun tipo di riferimento.  

Ma le cose che non vanno in questo albo finiscono qui  

Lorenza Ghinelli e Giovanni Eccher fanno un ottimo lavoro di scrittura e anzi, credo che sull’argomento bisogna sottolineare un dettaglio. Come già nel numero precedente (ve ne parlo qui), la struttura della narrazione è affidata ad un duo. Si parte da un soggetto e si sviluppa la sceneggiatura. Non so se si tratti di un trend voluto dalla curatricd Barbara Baraldi, ma posso solo dire che questa fusione di due universi narrativi sta producendo degli effetti molto particolari. 

E del tutto piacevoli.  

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Un’avventura insolita per Dylan Dog

L’ambientazione di questo albo è completamente distante dal solito per il nostro inquilino di Craven Road, che sappiamo essere poco uso ad abbandonare la vecchia Albione. Per un caso abbastanza curioso, proprio mentre la storia di questo mese dedicata a Martin Mystère avrebbe calzato bene anche a Dylan Dog (lo stesso Martin lo afferma nel corso dell’indagine, leggete qui), questo episodio avrebbe potuto funzionare altrettanto bene con Martin come protagonista. 

Ambientata nei ghiacci artici, la storia incrocia le vicende di un gruppo di ricercatori e di una tribù Inuit.  

La cultura inuit è ricca e antica, caratterizzata da una profonda connessione con l’ambiente artico. Gli Inuit sono noti per le loro abilità di caccia e pesca, essenziali per la loro sopravvivenza in condizioni climatiche estreme.  La loro lingua, l’inuktitut, è un elemento cruciale della loro identità culturale, mentre le storie orali e le leggende tramandate di generazione in generazione riflettono la loro visione del mondo e il rispetto per la natura.  

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Una cosa che mi ha, davvero, colpito è il fatto che gli Inuit preghino le loro divinità perché le temono. E si può dire che il gigantesco orso bianco che imperversa per buona parte dell’albo ne sia una ottima dimostrazione. 

L’elemento chiave di questa storia è l’incontro tra le due culture. Una vibrazione che ha funzionato già a meraviglia nell’ultima, meravigliosa stagione di True Detective (andatela a recuperare se ancora non lo avete fatto). Tutto comincia quando in una abitazione isolata nella notte artica una coppia viene massacrata male (sull’aspetto grafico della questione torno tra un momento) mentre i figli nella stanza accanto dormono pacificamente.  

Tornati in Inghilterra, il figlio più grande ingaggia Dylan per cercare di scoprire il mistero dietro a questo duplice omicidio. Seppur riluttante in primo luogo, accade poi qualcosa che porta Dylan ad abbandonare Clarks e camicia rossa ed imbarcarsi in una avventura tra i ghiacciai.  

Quello che maggiormente colpisce nella narrazione, è il ritmo. Dylan fuori dagli schemi urbani potrebbe solo apparentemente sembrare un pesce fuor d’acqua.  

Al contrario credo che portare Dylan fuori dai suoi soliti schemi può solo far bene alla testata. 

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La sensibilità, quasi eterea con cui risolve il mistero è quasi dolce. C’è una gentilezza insita nel rispetto dei ‘mostri’ e della cultura Inuit, che rendono questo episodio un piccolo gioiellino. Un gioiellino con incastri perfetti peraltro. 

Graficamente poi è superlativo. I tratteggi di Marco NIzzoli sono delicati, raccontano l’essenziale, sovrastando una pagina che è volutamente bianca per via della ambientazione. Ma gli interni e soprattutto il design dei personaggi richiama, nemmeno troppo da lontano, il lavoro di Moebius e Otomo, ravvicinando l’albo in questione ad una tradizione squisitamente francese. 

Le scene splatter, che richiamano il Dylan degli anni ’80, sono un vero shock. Per stessa ammissione di Marco Nizzoli, non le più facili tra le tavole disegnate, ma incredibilmente viscerali e realistiche. Le parti smembrate scomposte in una composizione astratta che solo il Demone Orso potrebbe fare (sto citando i Nuovi Mutanti di Claremont, ma attenzione, perché potrebbe essere un’aringa rossa). 

In generale un albo superbo, che fa solo sperare che questo 2025 sia carico di storie così sapientemente dylaniate.  


Ryo Flywas

Un nerd che si racconta ai nerd. Scrivo per passioni (al plurale). Conduco il The Flywas Show tutte le sere, venti minuti a sera. il mio sogno? La perfetta collezione di cultura nerd!

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