Un numero decisamente atipico di Dylan Dog Color Fest è arrivato nelle edicole italiane. Vi raccontiamo come sono queste Estreme Visioni e perché meritano un’opportunità
Dylan Dog è senza dubbio, attualmente e dagli anni Ottanta che videro il suo esordio in edicola, la punta di diamante del fumetto popolare apertamente mainstream che mira ad abbattere ogni etichetta, anche le proprie, (de)costruendo(si) dall’interno.
Tiziano Sclavi aveva dato la stura al movimento forse anche inconsapevolmente, con la sua penna sempre arguta e capace di mille sottigliezze; ma ovviamente, con il passare del tempo, era normale aspettarsi che anche la sua dimensione sarebbe apparsa inattuale; ma non la sua visione.
È non tanto il personaggio, ma l’universo artistico in cui si muove e da cui è nato, ad essere capace di rinnovarsi continuamente, con una spinta propulsiva incredibile alla quale basta la spinta di un autore per poter esplorare nuovi orizzonti.
Ed è successo con Claudio Chiaverotti negli anni Novanta, così come per Roberto Recchioni negli anni Dieci: nessun paragone da fare con Sclavi, perché ognuno a modo suo ha dato il suo apporto. Ma chi più, chi meno, hanno capito che Dylan Dog poteva rinnovarsi restando fedele a sé stesso: e non come Zagor o Tex o (uscendo dalle mura della sempre benemerita Sergio Bonelli Editore) Diabolik, ma proprio come Batman, Spider–Man o Topolino, archetipi universali che sanno intelligentemente farsi da parte per funzionare solo come porte verso nuovi mondi, fungendo da valida cornice.
Dotato probabilmente più di una formidabile visione d’insieme che di una buona penna, Recchioni è attualmente il curatore delle diverse testate dedicate all’Indagatore Dell’Incubo, che ha dotato ognuna di una originale identità.
Proprio la serie regolare, dopo il boom del Ciclo della Meteora e della pentalogia che ha seguito il traguardo del numero 400, è attualmente rimasta quella che sembra girare a vuoto: ottime storie si alternano a sceneggiature ripescate dal magazzino, in un continuo vorrei ma non posso in relazione alla programmata – e mai attuata davvero – messa in continuity delle storie, dando una personalità smaccatamente seriale al mensile.
Gli speciali sono diventati il Pianeta dei Morti, o meglio il Regno di Alessandro Bilotta. Capolavoro.
L’Old Boy, partito come contenitore onnivoro di storie legate al “vecchio” Dylan Dog, è stato invece inaspettatamente rivitalizzato e attualizzato con racconti dalla dimensione classica ma con autori che prediligono atmosfere che spingono sul gore e sullo splatter (e due copertinisti d’eccezione come Ambrosini e Montanari, un duo inedito ma fortissimo).
Arriviamo allora al Color Fest: che se inizialmente doveva essere un periodico che presentava semplicemente storie in quadricromia, da un po’ ha ben deciso di dare spazio alle voci a fumetti più estreme, al di fuori del solito circuito mainstream. Il Color #40 è l’esempio lampante e più eversivo del caso: Officina Infernale, Spugna e Jacopo Storace sono i nomi coinvolti, vediamo nel dettaglio le tre storie.
Eccezionalmente introdotte dalla –straordinaria- copertina di Ambra Garlaschelli che dà già il tono all’opera: un Dylan Dog che in controluce mostra quello che c’è dentro e invita al silenzio.
Quindi a guardare, ad osservare: le parole in questo momento non servono.
LA COLAZIONE DEI CAMPIONI
Officina Infernale (alias Andrea Mozzato) si muove già di suo tra grafica, pittura e fumetto dagli anni ’90: le sue creazioni colpiscono e stordiscono, in un impasto di tecniche e suggestioni che mettono insieme fotomontaggi, grafica digitale e collage che restituiscono veri e propri capolavori a metà strada tra la pop-art, l’undeground e la psichedelia.
Le vignette de La Colazione Dei Campioni eludono dal controllo della formalità, sembrano non essere contenuti dalla gabbia della pagina, prendono continuamente un percorso parallelo e alla fine consegnano un Dylan Dog che un po’ torna alle origini (innegabile e inevitabile il parallelo con l’Hellblazer John Constantine della DC Comics).
Il personaggio che si muove massiccio nel racconto non è Dylan Dog, almeno non è quel Dylan Dog, ma è qualcuno che ne ha preso il concept e lo ha buttato in piena Swinging London dopandolo con colori e schizzi a matita. Infarcito di iperboli ed ellissi narrative, racconta una “semplice” storia di fantasmi ma lo fa terrorizzando ancor più che con i mostri con i suoi segni che sembrano evocare realmente ombre, sussurri e grida. Inebriante.
LA CASA DELLO SPLATTER
Il secondo racconto rende ancora più esplicito il messaggio lanciato dalla copertina: una storia senza nessun dialogo, che si esprime con la forza dirompente del segno di Spugna (aka Tommaso Di Spigna): tra Robert Crumb e il punk più distorto, i colori acidi rendono giustizia alle tavole con una dimensione plastificata e tondeggiante, tra rigurgiti di bassa macelleria e lontani echi cyberpunk.
Come un Jacovitti in fase lisergica.
IL TEATRO DEI DEMONI
Il segmento ad opera di Jacopo Starace si riallaccia fin dal titolo al teatro: Dylan è allora proprio su un palcoscenico, e forse qui più che nei primi due racconti mostra le sue incredibili caratteristiche, perché è proprio il personaggio centrale che senza snaturarsi si piega ai segni e alla sensibilità del suo autore.
In una dimensione quasi metatestuale, Dylan Dog si misura con Dylan Dog il fumetto, con le sue ansie da prestazione e contro anche il suo pubblico, riprendendo tematiche da Ionesco e dal suo teatro dell’assurdo evidenziando l’affascinante ed eterna (in)consapevolezza del protagonista e dei suoi autori nel mettere mano, e creare, un vero e proprio pezzo di cultura popolare.
E quindi di noi.