Rispetto per il passato, azione, ilarità e fantasmi si amalgamano con il ricordo del film che negli anni ‘80 ha impresso i ricordi di una generazione. Ecco la recensione di Ghostbusters: Legacy, l’atteso terzo capitolo di una saga amatissima
Raccogliere l’eredità di un film come Ghostbusters non è per nessun motivo un qualcosa che si può fare con leggerezza. Sicuramente non si tratta di ricalcare una trama solida alla quale è possibile aggiungere nuovi elementi, o reinterpretare un plot degli anni ‘80 in chiave contemporanea. Ghostbusters è infatti così amato ancora oggi per la bellezza e la genuinità del team di protagonisti, più che per la mera caccia ai fantasmi. Ci siamo innamorati di Peter, Ray, Winston ed Egon come squadra molto prima e molto più a fondo rispetto a quanto potessero appassionarci le loro imprese.
Ed è per questo che Ghostbusters: Legacy di Jason Reitman riesce a colpire nel segno. Perché non prova a ripercorrere il sentiero dell’originale realizzato da suo padre Ivan Reitman. Piuttosto lo prosegue, lo arricchisce e lo accarezza con un finale che sa rubarci un’emozione sincera. Non è un reboot, non è un remake. È un tributo che sa di non poter fare nulla di meglio rispetto al passato, ma può rendere merito.
Il sipario si apre su Callie (Carrie Coon) e i suoi due figli, Trevor (Finn Wolfhard), il classico adolescente che vorrebbe di più da se stesso e dalla vita, e Phoebe (McKenna Grace), una ragazzina meganerd di 12 anni. Callie è la figlia di Egon Spengler, anche se purtroppo per lei questo retaggio non è motivo di orgoglio. Venne abbandonata quando era ancora una bambina, e vide suo padre Egon rinchiudersi in una vecchia casa di una anonima campagna. Casa che alla sua morte lascia in eredità alla famiglia. Senza soldi per vivere altrove, Callie decide di iniziare una nuova vita proprio lì a Summerville, in Oklahoma.
Summerville è un paese quasi anacronistico. Nella scuola si usano ancora i VHS e gli svaghi per un adolescente nato lì sono davvero pochi e spesso monotoni. Nonostante ciò il pubblico in sala inizierà a divertirsi ben prima che appaiano i fantasmi. Tutto questo grazie a personaggi come Podcast che si accingeranno a conoscere Phoebe e la sua famiglia di nuovi arrivati.
Quando poi arriviamo ai primi rilievi e apparizioni di presenze ectoplasmatiche, non subiamo un uso eccessivo della CGI. Qui l’intento di Reitman sembra quello di voler continuare sulle scene ed effetti usati dal padre per realizzare la pellicola originale. E tutto questo torna a contribuire al tono rispettoso e quasi mai rivoluzionario che caratterizza il film.
Proseguendo con la trama, Phoebe scopre la vera identità di suo nonno, inciampando in strane attrezzature nel seminterrato e scoprendo una minaccia soprannaturale che potrebbe distruggere il mondo. Da qui sono tanti i rimandi ad oggetti e scene ben note al fan. Tutto ciò però non ferma la scoperta e l’evoluzione del presente. Finn Wolfhard nel ruolo arrogante del fratello maggiore da opposizione diventerà ausilio. Logan Kim nelle vesti di Podcast, sarà un fedele amico e compagno di classe di Phoebe che documenterà tutto, naturalmente per il suo podcast personale. Mckenna Grace, Phoebe, ha per davvero tra le mani la legacy del nonno. Una bambina senza paura che è affascinata da tutto ciò che non conosce o capisce, anche quando si tratta di fantasmi.
Giunti alla fine avrete molte belle sorprese. La maggior parte delle quali non posso nemmeno lontanamente menzionare per evitare spoiler. Posso consigliarvi però di tenere un fazzoletto a portata di mano, qualche lacrima scapperà. In conclusione vi suggerisco di non uscire dalla sala fino alla fine di tutti i titoli di coda, ci saranno infatti ben due scene post credit. E ora che siete carichi e preparati non vi resta che prenotare il vostro biglietto per Ghostbusters: Legacy lasciandovi andare ancora una volta al suono della sirena della ECTO-1.
1 Comment
Anton
(21 Novembre 2021 - 01:52)Veramente sembra più una riedizione dei Goonies in un crossover mal riuscito sulla story line dei Ghostbuster, con tanto di comicità bambinesca del primo, anziché la scanzonata ironia del secondo (tipica sì degli anni ’80, ma che ha reso il film un’icona dei suoi tempi, al pari di Ritorno al Futuro)
Il copione è frettoloso: anche se il film dura due ore, racconta appena la storia di una settimana, mentre negli orginali la storia si sviluppava un arco narrativo di diversi giorni, dando spessore e complessità alle relazioni dei personaggi.
I protagonisti risultano troppo giovani per il ruolo e assurdamente competenti per le loro età, pur adottando tutta la buona dose di sospendione dell’incredulità che un film del genere richiede: la ragazzina è un cliché nerd in salsa gilrpower, a metà tra una Mary Sue e uno Sheldon Cooper con tanto richiami simil-autistici; il fratello, invece, ha le abilità meccaniche e rallystiche di un Toretto junior dell’ultimo Fast and Fourius. Inoltre, assieme al resto del cast, vivono in una bolla autoreferenziale di relazionalità dall’inizio alla fine del film, quasi si fosse voluto risparmare il budget per le spalle e le comparse.
La storia, poi, è tutta una copia del primo, con un Mastro di Chiavi e un Guardia di Porta che trovano, non si capisce bene in quale casualità, legati coi protagonisti.