Uno speciale scritto con il cuore, una lettera d’amore a una delle più incredibili serie TV mai concepite: bentornati a Twin Peaks
Cari David e Mark,
Caro Kyle,
Cari lettori di MegaNerd,
È da questo breve articolo, nato dopo avere fagocitato voracemente le prime tre o quattro puntate date in pasto alla rete in modo incontrollato, che non scrivo di Twin Peaks. Dalla redazione ho ricevuto diversi solleciti a farlo e, ogni volta, mi sono resa conto di aver trovato scuse per procrastinare: «Aspettiamo di arrivare a metà stagione», «Facciamo un recap a poche puntate dalla fine», «dai, ok, magari possiamo approfondire questo o quell’arco narrativo». Ho accampato scuse, inventato impegni e stravolto (almeno a livello immaginario) la scala delle mie priorità, alla ricerca di un’auto-assoluzione per non aver adempiuto al mio “dovere”, ritrovandomi invece a non avere più vie di fuga semplici, a non poter liquidare il tutto in poche righe di teorie strabilianti sul gran finale. Ho preso e perso tempo, senza saper bene a cosa dovesse condurmi questa attesa.
Che taglio dare ad un articolo su Twin Peaks che non risulti banale, ridondante, inaccessibile o, peggio, superfluo? Su quali personaggi, teorie, approdi possibili costruire una riflessione da condividere col pubblico di MegaNerd? Allora ho riattivato il mio account Twitter, seguito tutte le sessioni di Q&A offerte dalla produzione, scritto domande rimaste (per fortuna) inevase, comprato la stragrande maggioranza dei volumi usciti nell’arco di quasi un trentennio riguardanti la serie – trasformandomi in una grooupie dei nostri tempi – tra missing parts recuperate su YouTube e post carbonari – di spoiler russi – letti fugacemente su Reddit. Ho sposato teoremi improbabili, approfondito teorie di seguaci della prima ora, studiato simboli, collegamenti, vite ed evoluzioni di personaggi ed interpreti, trovandomi sempre di fronte a risposte nebbiose, mutevoli, come le sensazioni provate ogni lunedì, al risveglio, dopo la visione di una nuova puntata della serie Showtime trasmessa per noi da Sky Atlantic.
Spesso non mi sono sentita all’altezza.
Ho pensato di non essere parte del club di eletti capaci di muoversi nei meandri di questo show televisivo sciorinando nozioni, date, scenari come se stessero parlando delle loro stesse esistenze. Di non avere, insomma, abbastanza argomenti per uscire dalla mediocrità dell’approssimazione di un racconto parziale. Del racconto di una nata negli anni ’80, che della prima messa in onda italiana non ricorda altro che l’imponente impatto con le note di “Falling” (Angelo Badalamenti) e il cupo ridondare del «Chi ha ucciso Laura Palmer» propinato fino allo sfinimento da qualche rete Fininvest. Ebbene sì, lo confesso. Ho avuto il coraggio di (ri)scoprire Twin Peaks solo in età adulta, a ridosso del mio terzo giro di boa, tanto ne avevo mitizzato la genesi e i contenuti attraverso la più antica forma di osmosi, quella del racconto degli altri, filtrato da occhi diversi dai miei, figlio di molteplici parzialità. Sì, perché tra i banchi delle elementari, di Twin Peaks si parlava sommessamente, tra la ricreazione e il pranzo, per bocca di qualche coraggioso che era riuscito a rubare cinque minuti di una puntata spiando nella stanza di un qualche fratello maggiore. Oppure capitava di citarlo al buio, a voce alta, quando diventava argomento dei circoli del ti-racconto-una-storia-che-fa-paura, che da bambini si usa fare nei lassi di tempo liberati dal controllo degli adulti, squarciando il velo del proibito e attribuendosi una malizia innaturale, per cui non basterà una vita per scrollarsela di dosso.
Così, per chi si aggira intorno ai trent’anni, Twin Peaks è stato più o meno il rito iniziatico del passaggio dalle barzellette sul fantasma formaggino alle visioni collettive di “Halloween”, “Non aprite quella porta” e avanti fino a “The Blair Witch Project” o “Saw”, prima di dare all’orrore una connotazione molto più terrena e viva, tra cronaca nera e guerre di ogni natura.
Della serie sapevo di una ragazza che scriveva sul diario della sua doppia vita, di un padre che cambiava colore di capelli, del violento Bobby, di Bob che invece era un demone, della Loggia Nera dove-si-parlava-lento-lento-ed-al-contrario, di un anello e delle due montagne gemelle su cui nasceva una cittadina di 51.201 abitanti; non uno di più, non uno di meno. Avevo ascoltato, memorizzato ed archiviato ogni cosa, pensando che sarebbe stato tutto quello che c’era bisogno di conoscere sull’argomento. Perché nessuno di noi a sette, otto anni, poteva vederci più che una serie tv proibita, spaventosa e per questo estremamente attraente, in cui il fascino del cellophane che avvolgeva la pelle livida di Laura Palmer batteva di gran lunga l’eleganza dell’Agente speciale Dale Cooper, o la visionaria genialità di Lynch nell’impostare un racconto completamente distopico in una fase storica ancora figlia di una (rassicurante?!) linearità fattuale. Ma, del resto, la candida ordinarietà delle villette a schiera di Velluto Blu, quelle dai giardini così curati che ci si potrebbe dormire sopra nudi, se non fosse per il ritrovamento di un orecchio mozzato che apre la strada ad un diverso racconto dei luoghi e di chi li abita, ce l’aveva detta lunga sulla visione di almeno uno dei due autori della serie.
Così, cari David, Mark, Kyle, lettori di MegaNerd, vorrei usare questa posizione di privilegio per condividere con voi alcune riflessioni – che spero non risulteranno troppo contorte o primordiali – al fine di provare a restituire senso a una domanda che continua a ronzarmi in testa, vibrante come la tensione elettrica, costante come le esibizioni al Roadhouse: perché in quest’epoca – senza poter fare appello alla nostalgia malinconica o alla rievocazione vintage – ho scelto di lasciarmi attraversare dal vento di Twin Peaks? E perché da questa scelta è scaturita la necessità di parlarne con voi? Cercherò di arrivare al punto prendendo brevemente in esame alcuni degli aspetti che hanno attirato la mia attenzione: “il tempo”, “la dimensione dell’happening”, “alcuni punti di svolta in The Return e nell’episodio 16″, l’ultimo andato in onda, in cui mi è sembrato di trovare, oltre ad un forte appagamento emotivo, l’eco delle risposte di cui avevo veramente bisogno.
IL TEMPO
Nella filmografia di Lynch – prima e dopo gli anni 1990/1992 – ogni cosa sembra ricondurre a Twin Peaks, seppur in misura diversa. Da “Eraserhead” a “Inland Empire” passando per “Velluto Blu”, “Strade perdute” e “Mulholland Drive”, tutto riporta a un sogno distorto, in cui ogni confine diventa estremamente labile, al punto da non capire più chi sia a sognarlo e se tra questa dimensione sospesa e la realtà ci siano differenze poi così sostanziali. A tal proposito, oltre ai rimandi presenti in cortometraggi come: “The Alphabet” o “The GrandMother”, ci basti pensare che “Mulholland Drive” nasceva come plot della terza stagione dello show – quella in cui Audrey avrebbe dovuto lasciare lo stato di Washington alla volta di Los Angeles – per comprendere quanto ogni scelta compiuta nell’universo lynchiano trovi continuità con la successiva (o con la precedente), dentro una temporalità che si può scorrere in ogni verso, osservare da ogni latitudine e ricondurre all’interno dei confini di Twin Peaks, che sono poi quelli del diorama (o compendio) dell’arte e del vissuto del regista. Lynch deframmenta, scorpora, mostra dettagli e azioni, prendendosi anche lui il tempo che serve, dilatandolo, scomponendolo, moltiplicandolo a volte, al fine di permettere allo spettatore di riappropriarsi di strumenti che, per moltissimi anni, la serialità televisiva (di massa), ha teso ad allontanare.
Così Twin Peaks non lo si può guardare nei tempi morti che la frenesia dei giorni concede; non è uno show d’intrattenimento, non ammette passività. Lo spettatore deve – prima di ogni altra cosa – trovare la giusta dimensione, la predisposizione necessaria ad accogliere quel che la serie ha da offrire. Non esiste la possibilità di leggerne i contenuti con leggerezza, di guardarla senza entrarci dentro, così come si farebbe con un qualunque altro Crime di successo (True Detective escluso). Non ci sono notizie superflue, tempi morti o espedienti di contorno: ogni dettaglio risulta necessario, imprescindibile e – anche se di difficile comprensione ad una prima visione – legato in maniera indissolubile all’intero: “dal particolare all’universale”, insomma, con la facoltà per lo spettatore di scegliere la prospettiva da cui guardare le cose. Di determinare l’essenza dello “sguardo”, elemento centrale per la lettura di ogni prodotto audio-visivo.
Nella breve prefazione a “Il Diario segreto di Laura Palmer” (Jennifer Lynch, 1990 – riedito da Mondadori nel 2011), il regista afferma che:
«Anche se Mark Frost ed io cominciammo a raccogliere le idee in una caffetteria di Los Angeles, fu il grande mistero dei boschi che ci travolse – sospinto da una specie di vento notturno, portando con sé tutto ciò che sarebbe diventato TP. Mark e io dovevamo solo sorridere e stupirci di quanto ci veniva rivelato! Ci lasciammo colpire dal vento, semplicemente, e accogliemmo tutto come un sogno profondo ed elettrizzante».
Presumibilmente gli stessi autori, nel creare il mondo di Twin Peaks, hanno permesso che il tempo scorresse, che la storia fluisse senza determinarne razionalmente ogni singolo aspetto. Così, nel rispetto del sempiterno feedback tra creatore e fruitore, da Twin Peaks bisogna lasciarsi cogliere, senza però farsi portare via. Le logge sono dietro l’angolo ed è facile finirci impantanati dentro – riscoprendosi impuri di cuore – e rischiando di non uscirne più. Quindi, cari lettori di MegaNerd, concedetegli tempo, datevi fiducia, superate gli steccati sovrastrutturali che vi porterebbero a definire “paradossale” o “sconclusionato” ciò che l’occhio vede. Trovate il vostro sguardo, quello da cucirvi addosso come una coperta e lasciate che il vento vi attraversi; ne rimarrete inebriati.
TWIN PEAKS: UN HAPPENING LUNGO (QUASI) TRENT’ANNI
In questa mia rocambolesca scalata alle vette gemelle, nel tentativo di fuggire (almeno idealmente) il caldo torrido di questa fetta di Mediterraneo, ho riflettuto spesso anche sui legami tra le stagioni originali unite a The Return e le diverse pubblicazioni associate agli eventi narrati nella serie, senza dimenticare il prequel cult Fuoco cammina con me (FWWM 1992) di cui, pochi giorni fa, ricorreva il 25esimo anniversario. Credo che una delle chiavi per aprire le porte di Twin Peaks sia nascosta nella capacità di leggerne i diversi livelli, d’integrarli tra loro, come in una sorta di happening. Le peculiarità dei due creatori risultano già di per sé differenti: la scrittura, come veicolo attraverso cui si esprime il sogno di Mark Frost e le immagini, mediante cui prendono vita le visioni di David Lynch. Abbiamo già detto di FWWM, incentrato sugli ultimi giorni di vita di Laura Palmer che, insieme al “Diario”, appare oggi come un approfondimento necessario per comprendere la figura di Laura, il rapporto con i genitori Leland e Sarah, il suo essere un’adolescente disillusa e piuttosto lontana dai sogni vissuti dalle sue coetanee. E se l’audiolibro: “Diane…The Twin Peaks Tapes of Agent Cooper” (1990) risulta ormai introvabile, “L’Autobiografia dell’Agente speciale Dale Cooper: la mia vita, i miei nastri” (Scott Frost, 1991), reperibile in rete, ha chiarito molti aspetti legati all’incredibile percettività dell’uomo di punta dell’FBI e alla connessione con la figura di Laura che, pur non incontrando mai nella realtà, abita i suoi sogni e sembra aver un vincolo estremamente stretto col suo percorso professionale e privato.
Lynch e Frost hanno redatto insieme: “Twin Peaks: An Access Guide to the Town” (1991) , una guida turistica della cittadina inventata di sana pianta, mentre i fortunati spettatori dello show originale hanno potuto godere della: “The Twin Peaks Gazette”, magazine con anticipazioni e dietro le quinte. E, ancora, Mark Frost, poco prima dell’uscita di The Return, ha pubblicato il primo volume del dossier su: “Le vite segrete di Twin Peaks” (Mondadori, 2017) che, partendo dall’avvento dei coloni nel nord ovest degli Stati Uniti e dalla cacciata dei nativi, ricostruisce percorsi e teorie sulla genesi degli spiriti che abitano i boschi della cittadina, sulla possibile origine benigna o maligna dei loro effetti sugli abitanti, sull’importanza del fuoco, degli anelli, della purezza d’animo. La seconda parte del dossier, (già prenotabile online) uscirà soltanto in autunno, quasi a voler chiosare definitivamente sui dubbi che, magari, i due episodi conclusivi di The Return non riusciranno a fugare. A quanto già detto, si uniscono poi i missing pieces, ovvero le scene tagliate da FWWM, fondamentali per comprendere i movimenti di Cooper nella notte prima della sua scomparsa, dopo aver “ceduto” a Bob nella Loggia Nera. Movimenti che, in The Return, hanno un peso imponente: basti pensare al destino di Richard, ai dubbi (ancora irrisolti) sulla condizione di Audrey, ai silenzi colpevoli di Diane. E se i titoli di alcuni degli album musicali incisi da Lynch sembrano rimandare direttamente ai main temes di Twin Peaks – “Blue Bob” (2001), “The air is on fire” (2007), “The big dream” (2013), non si può certo lasciare al caso neanche la passione dello stesso per le fabbriche dismesse, oggetto della mostra fotografica “The Factory Photographs” che, nel 2014, è passata anche per Bologna. Del resto è intorno al lavoro di un’enorme segheria che la città di Twin Peaks si regge, la stessa che poi sarà data in pasto al fuoco, altro elemento centrale della serie, su cui tornerò tra poco.
Proprio presentando la sua mostra, Lynch ha sostenuto che:
«Mi piacciono le fabbriche. Quelle in funzione, ma soprattutto quelle in disuso, dove la natura torna a reclamare il suo posto. Amo i fluidi e il fumo. Amo le cose create dall’uomo. Mi piace vedere la gente lavorare duramente e mi piace la melma, gli scarti che l’uomo produce».
Le fotografie, scattate tra il 1980 e il 2000 tra gli Stati Uniti e l’Europa, rimandano a molti elementi presenti nella serie tv, sia sul piano delle forme che su quelli spaziale e cromatico.
Dalle parole di Lynch sembra chiaro quanto gli scarti dell’essere umano siano importanti anche nella lettura di Twin Peaks e, di conseguenza, non risulta difficile credere che uno spirito – che si riveli essere di Josie Packard o di qualunque altro personaggio – possa rimanere intrappolato per sempre nel legno. Lo stesso materiale che è stato fonte di ricchezza durante la sua vita ora ne carpisce i resti, come scarto di un’esistenza corrotta – senza starci a raccontare storie sulla possibile redenzione – quasi quanto tutte le esistenze di chi abita Twin Peaks, quasi come ogni vita. Perché, in fondo, nel mondo distopico, assorbire i comportamenti sbagliati, non saper individuare il Male (nella sua accezione più ampia e sconfinata), rimuovere la morte con altre forme di morte, sembra essere l’unico approccio possibile e, in questo, la visione lynchiana delle cose può distrattamente apparire vintage quando, piuttosto, sarebbe da definire avanguardista.
Non mi addentrerò in approfondimenti sull’elettricità, la formica, la garmonbozia; sui doppelganger e i tulpa di cui The Return è colmo – e anche qui i paragoni col mondo reale sarebbero innumerevoli e fin troppo scontati – né sull’interessante analisi dei simbolismi per cui vi rimando ai molti focus che, con un briciolo di pazienza e curiosità, potrete trovare in rete. La centralità del fuoco, invece, rimane elemento fondante di ogni analisi possibile, insieme al trionfo della natura, rappresentata dal vigore boschivo che circonda la cittadina di Twin Peaks. Dalle leggende dei nativi americani agli spiriti dei boscaioli inceneriti, dalla segheria alla la pompa di benzina – stargate di almeno uno dei “sottosopra” (spero siate tutti fans di Stranger Things) su cui si stratifica la narrazione – fino all’autocombustione degli impuri nella Loggia Nera, il fuoco si configura come rappresentazione del sommerso, dell’oscuro. Ne è dimostrazione il calore da cui Laura Palmer si sente consumare perché, come dice la Signora Ceppo: «Quando si accende un fuoco simile a questo è molto difficile spegnerlo… gli esili rami dell’innocenza bruciano per primi… poi si leva il vento e allora tutto il bene che uno ha dentro è in pericolo». Dal bosco viene invece la conoscenza di sé stessi ed è – probabilmente – il punto d’accesso per la Loggia Bianca; è la casa dei gufi (che non sono mai quello che sembrano), il luogo in cui la percezione si amplifica (nel bene e nel male).
Così, il verde folto e ventoso e il fuoco, sembrano essere i due elementi intorno a cui le forze immateriali del bene e del male si muovono e albergano, in un confondersi di piani non sempre riconducibile a confini netti:
«Imparai che appena sotto la superficie c’è un altro mondo, e mondi ancora differenti se scavi più in profondità. Da ragazzino ne ero consapevole, ma non riuscivo a trovarne la prova. Era semplicemente una sensazione. C’è bontà nei cieli blu e nei fiori, ma ci sono anche altre forze – il male selvaggio, la decadenza – che accompagnano ogni cosa»
(D.Lynch, “Io vedo me stesso: la mia arte, il cinema, la vita” – Il Saggiatore,2016).
PER PREPARARSI ALLA SEASON FINALE: ALCUNI PUNTI DI SVOLTA IN THE RETURN E LA CENTRALITÀ DELL’EPISODIO 16
Lo prometto: non mi getterò nel vortice delle congetture per chiarire il compito della divisione blue rose, il senso delle sfere (semi) d’oro e d’argento o la spasmodica passione per alcool e sigarette che accomuna Sarah Palmer a Diane. Vorrei invece condividere con voi solo alcuni degli snodi di The Return, risultati centrali nel mio percorso di catechesi verso la serie, tenendo sempre a mente che, dentro e fuori Twin Peaks, non c’è niente di superfluo, nulla che si possa evitare di vedere o conoscere.
Episodio 1 – La narrazione riparte da dove ogni cosa si era fermata 27 anni fa. Ritroviamo Laura Palmer, la Loggia Nera e la sua fauna, Cooper, il suo doppelganger e, con una certa dose di stordimento, ritorniamo all’interno della storia, scoprendo che nulla si muove più nei confini (per nulla) “confortevoli” della Twin Peaks che conoscevamo.
Episodio 6 – «Diane, 4 e 10 del pomeriggio, luogo del delitto. C’è qualcosa che ci era sfuggito prima: un mucchio di spazzatura di circa 50 centimetri di diametro, in cima c’è una catenina con un cuore d’oro. No, aspetta, mezzo cuore d’oro. Alla base del mucchio di spazzatura c’è un pezzetto di carta di giornale con una scritta che sembra essere fatta con il sangue: “Fuoco cammina con me”» (registrazione di Dale Cooper per Diane). In questo episodio ravvisiamo almeno due elementi centrali per l’evoluzione in flashback e flashforward della serie: la rivelazione del volto di Diane incarnato da Laura Dern (feticcio lynchiano) e il tragico incidente, provocato da Richard (figlio di Audrey e Bad Cooper), che causa la morte di un bambino all’altezza dello stesso incrocio in cui Laura e Leland Palmer incontrarono Mike. La tragedia si consuma sotto gli occhi di Carl Rodd, (uno strepitoso Harry Dean Stanton) che, come alla ricerca di un elemento salvifico, alza gli occhi al cielo oltre la fitta vegetazione mentre sotto, tra le urla strazianti di una madre e la fuga disperata dell’assassino, continua a vibrare forte l’energia nei fili elettrici.
Episodio 8 – Lynch in passato ha affermato che: «Non saprei cosa farne del colore. Il colore, per me, vincola troppo alla realtà. È limitante. Non concede spazio al sogno. Più aggiungi nero ad un colore, più questo diventa surreale…il nero ha profondità. È come un piccolo anfratto: lo imbocchi ed è buio e continua a esserlo anche andando avanti. Ma è proprio per questo che la nostra capacità percettiva si fa più acuta». Ed è tutta la capacità percettiva individuale che questo episodio chiama a raccolta, nella narrazione ricca di richiami e citazioni della genesi del bene e del male; di quella di Bob, figlio del fuoco, e di quella di Laura, librata in cielo, in una palla dorata, da un luogo ascrivibile alla Loggia Bianca. Episodio estemporaneo e centrale, sia per gli elementi stilistici propri di Lynch sia per una viaggio a ritroso nella storia di personaggi vecchi e nuovi.
Episodio 14 – Gordon Cole racconta ai suoi di aver sognato Monica Bellucci e di aver ricevuto un messaggio fondamentale: «Siamo come il sognatore che sogna e vive dentro al sogno: ma chi è il sognatore?». Così scopriamo un altro elemento importante per la storia ed un particolare in più su uno dei personaggi più ricchi ed entusiasmanti dell’universo di Twin Peaks (quello che Lynch ha scelto di tenere per sé) ma, arrivando a fine puntata, verrebbe da chiedersi anche: chi o cosa è Sarah Palmer?
Episodio 15 – «Chi è Judy?» – «L’hai già incontrata» – «Che significa che l’ho già incontrata?». È da qui che, il cerchio delle molte trame aperte 27 anni fa da Twin Peaks, inizia a chiudersi. Dal triangolo – divenuto ormai un quadrato – tra Ed, Nadine, Norma e il Dott. Jacoby, risolto con ironia e romanticismo sulle note di “I’ve been waiting you too long” di Otis Redding, alla rivelazione del “Fuochista”, passando per la svolta data alla figura di Andy (artefice del recupero di Naido) e per il ritorno, seppur in forma di essenza, all’interno di quella che sembra una strana, gigantesca teiera di Phillip Jeffries (David Bowie). A meritare una menzione speciale, è però l’ultima apparizione della signora Ceppo: «Sto morendo. Tu sai che la morte è solo un cambiamento, non la fine. È arrivata l’ora e si prova un po’di paura nel lasciar andare le cose!», dice Margaret Lanterman al Vice Sceriffo Hawk. Il mezzo audiovisivo si fa metafisico, supera le barriere della finzione e ci permette di vedere, dietro al ceppo che si sta trasformando in oro, i tratti del tutto reali della malattia di Catherine E. Coulson, l’interprete storica (già segretaria di David Lynch) di questo bellissimo e delicato personaggio. Così, la scelta di donare allo schermo battute che hanno il peso di un’accettazione stoica di quel che sarà, diviene un vero atto d’amore che la Log Lady rende a Twin Peaks, ai suoi creatori e agli spettatori. Dietro le parole di Margaret/Catherine, infatti, ci sono la vita e la morte; c’è lo spegnersi di un corpo e l’immortalità che la serie televisiva restituisce alla sua immagine.
L’episodio contiene un’ulteriore rivelazione: i primordi del risveglio di Dougie Jones (tulpa di Cooper), altro personaggio incredibile, che si ha nostalgia a lasciare andar via, con cui gli autori possono giocare su molteplici registri. Prendete come esempio la banalizzazione della “normalità famigliare”, così ricercata dalla moglie di Dougie, Janey-E, al punto di non accorgersi (o di accontentarsi) di avere a fianco, al posto di un marito, poco più che un automa.
Episodio 16 – È però con questo episodio che, dal mio punto di vista, tutto comincia a tornare al proprio posto in un percorso in grado di restituire dignità al passato e di preparare lo spettatore ad un – quasi certo – addio, in un crescendo di visioni evocative e chiusure di altri piccoli o grandi cerchi lasciati aperti per tanto, tantissimo tempo. Arrivata ai titoli di coda, mi è tornata la voglia di scrivere, con la pelle d’oca che continua a cogliermi anche a distanza di giorni e un’euforia infantile che non conoscevo più da tempo. La puntata 16 di questo Return ha portato con sé una ventata fortissima, viva, come a voler ripulire ancora una volta la lavagna affinché possa essere pronta a raccogliere un nuovo racconto. Oltre 50 minuti capaci di restituire fiducia nei confronti di un mezzo, di una forma di linguaggio che amo molto ma che, negli ultimi anni, avevo faticato a decifrare, temevo per assuefazione (un po’ come accade per i rapporti stantii). Un episodio, il 16, pieno di milestones, momenti che rimarranno impressi nella storia della TV. Che il ritorno di Dale Cooper sarebbe stato epico non c’era dubbio, ma nel determinato entusiasmo di quel: “I am the FBI” che – sulle note di “Falling” – pronuncia fuori dall’ospedale in cui era entrato come Dougie Jones, c’è la misura di un’attesa e di una mancanza che non si era davvero in grado di quantificare esattamente fino alla messa in onda della scena.
E poi Diane, la sua salita verso i piani alti dell’hotel che è un po’ come il preludio a una discesa verso l’inferno, in un crescendo di tensione negli sguardi scambiati con Gordon Cole – che sa tutto e non fa nulla per impedire lo svolgersi degli eventi – nella confessione di una sofferenza abominevole che le rughe intorno agli occhi di Laura Dern si trascinavano dietro fin dalla prima apparizione. E, ancora, l’assurdità della sparatoria fuori casa Jones, chiosata dalla frase (quasi una freddura) di uno dei fratelli Mitchum: «Le persone sono molto stressate, Bradley». Cosa dire dell’addio di Cooper a Janey-E e Sonny Jim? La promessa di un ritorno da parte di lui, il ringraziamento per esserci stato negli occhi pieni di gratitudine di lei, una strepitosa Naomi Watts che, in fondo, smette da subito di chiedersi chi sia l’uomo che le ha dormito accanto nell’ultimo periodo perché, quel che conta, è solo che possa tornare, che Cooper sia in grado di restituirglielo. Eddie Vedder canta sul palco e quasi non ci si stupisce più nel turbinio emozionale degli eventi poi, però, arriva Audrey. Dalla trappola (forse solo mentale) in cui è ferma, irrompe finalmente sur scène, balla la sua canzone (“Audrey’s Dance”, di Angelo Badalamenti) davanti al pubblico e, ad un tratto, si ritrova a guardarsi in uno specchio, persa un’altra volta – in un manicomio o magari in coma – di nuovo con l’intento di ribaltare il punto da cui lo sguardo dello spettatore si abitua ad osservare gli eventi, ancora a sovvertire l’ordine delle cose.
Quel che si riesce a vedere chiaramente è che Lynch spazza via molti dei personaggi nuovi introdotti in The Return o, almeno, tutti quelli connessi al polo ampio del Male, a testimonianza di quanto una vera resa dei conti sembri vicina. Eppure, di domande sospese ne restano a montagne: rivedremo mai Chester Desmond? Scopriremo chi è Judy, che fine avrà fatto Annie o se Linda è un’altra figlia che Bob ha restituito al mondo? Potremo avere una stima esatta dei tulpa e dei doppelganger della serie? L’anello che Mike ha dato a Cooper servirà a riportare Bob nella Loggia Nera e i capelli che Cooper ha dato a Mike fabbricheranno un nuovo Dougie più umano di quello iniziale? Cosa ne sarà di Sarah Palmer, del braccio di Freddie, di Audrey o del fischio che viene dalle pareti di legno del Great Northen Hotel? Rivedremo Laura? Forse non c’è più tempo per parlare della bravura del cast (vecchio e nuovo) di Twin Peaks – di cui speriamo che i signori degli Emmy, dei Golden Globe e di qualunque altro premio televisivo terranno conto – o per chiedere a gran voce alla produzione di dare il via ad uno spin off con Dougie Jones e i fratelli Mitchum a fare da protagonisti, ma ne resta quanto basta per un commiato da questa lunga sequenza di parole.
Cari David, Mark, Kyle, lettori di MegaNerd; se siete arrivati fino a qui è per avere almeno uno straccio di risposta alla domanda che (mi) ponevo all’inizio dell’articolo: perché lasciarsi attraversare da Twin Peaks? A che fine condividere queste riflessioni con voi? Forse il punto è che, per riuscire a fermarsi, serve sempre un motivo. Recuperare la giusta distanza dalle cose, saperle osservare, assorbirne l’essenza, sono processi innati che disimpariamo – nel corso degli anni – con una certa disinvoltura. Twin Peaks, nel mostrare il Bene ed il Male attraverso paradigmi – paradossali ma – assoluti, ci accompagna in questo percorso di riscoperta. Ciò che questo show televisivo sa donare, è qualcosa che non può essere ascritto al solo prodotto seriale e muove sensazioni così intime che una risposta universale non credo potrà mai esistere.
Cari David, Mark e Kyle, mi congedo da voi con un abbraccio immaginario che porta con sé il peso di un’immensa gratitudine. Ho amato il vostro lavoro con la profondità degli occhi di Laura, con la purezza d’intenti di Dougie, con la consapevolezza priva di vanità di Gordon. Ho seguito ogni episodio con la pazienza di Big Ed e l’impazienza (giustificata) di Janey-E; senza le Cherry Pie di Norma, certo, ma con molti più caffè e tabacco di quanti ne abbiano mai bevuti o fumati Dale e Diane. Ed ora non so dirvi altro che grazie.
Cari lettori di MegaNerd, ho sentito il bisogno di lasciare scorrere le parole che ho condiviso con voi come misura del risveglio di una passione, come meridiano zero da cui ripartire, quale “celebrazione” di quel che è stato e che tornerà ad essere, ancora una volta (almeno), domenica 3 settembre. E se a qualcuno sarà venuta voglia di aspettare le due di notte per sapere se veramente potremo considerare terminato questo lungo viaggio, ci s’incontrerà lì, nel limbo del Roadhouse, dove la lenta banalità del quotidiano si mescola all’inaspettato tocco dell’imprevedibile, alle mille sfumature di nero di cui si nutre il mondo. Oppure, più semplicemente, ci troveremo a scambiare opinioni su qualche pagina social, colti da quel senso comune di perdita ed abbandono che ogni cosa amata si lascia in scia, volgendoci le spalle (forse) per un’ultima volta.